Il paese che non c’è

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Lunedì 03 Dicembre 2012 09:51

Palestina/Israele

Una convivenza difficile

Loro hanno le armi e le pietre, noi i bastoni del pastore.
Loro hanno la polizia dalla loro parte, noi nessuno, solo le nostre famiglie.
Loro fanno quello che vogliono e noi dobbiamo tacere. Loro vengono e buttano giù le nostre case, distruggono le nostre cisterne. Noi le dobbiamo ricostruire di nascosto. Fino a quando?
Il lamento di Abud è il lamento di un popolo.
Ormai la nascita di uno Stato Palestinese sembra un sogno impossibile.
Il territorio di Gaza, sul mare Mediterraneo con una uscita verso l’Egitto è considerato una immensa prigione a cielo aperto.
Il territorio della Cisgiordania è una pelle di leopardo, nella quale i villaggi dei pastori devono convivere con gli insediamenti israeliani serviti da strade, luce elettrica, acqua in abbondanza.
Un solo ulivo dei coloni beve in un giorno tanta acqua quanta ne beve un villaggio palestinese con donne, uomini e bambini.
Con l’acqua abbondante chiunque è capace di far fiorire il deserto.
Gerusalemme est e Betlemme con i territori vicini vede un muro costruito al di fuori di ogni logica, che non sia quella del disprezzo dei valori e della giustizia, tagliando pascoli, dividendo famiglie e comunità, distruggendo relazioni, isolando le fonti di acqua a favore del più forte.
Come si può pensare in due stati e due popoli?
Si dovrebbe spostare mezzo milione di israeliani, che adesso vivono fuori dal confini ufficiali dello Stato di Israele.
A fine novembre si tenterà ancora una volta un qualche riconoscimento della Palestina alle Nazioni Unite, ma già Israele ha minacciato di ridurre alla fame la comunità palestinese se tenterà quel passo.
Eppure il riconoscimento della Palestina come membro osservatore (stesso status del Vaticano), ruolo finora svolto dall’OLP, Organizzazione per la Liberazione della Palestina può contare con i numeri necessari per diventare realtà.
Nel settembre 2011 Mahmoud Abbas aveva cercato di ottenere il riconoscimento della Palestina come Stato membro, ma era stato bocciato dal veto americano al Consiglio di Sicurezza, mentre altri stati, tra cui l’Italia, esprimevano la loro neutralità sulla faccenda.
Adesso poi, dopo la guerra dei nove giorni, la posizione di Fatah, dominante in Cisgiordania appare più debole rispetto a quella di Hamas della striscia di Gaza.
A tutti: paesi arabi della primavera, gli Stati Uniti, l’Europa e lo stesso Israele si lasciano impressionare di più da chi fa la voce grossa e questi non è certamente l’autorità palestinese dialogante, ma quella che spara i razzi dell’Iran. Il più forte e il più rumoroso aggiunge degli argomenti importanti alle proprie ragioni.
Intanto continua l’ostilità quotidiana: pecore uccise, ulivi tagliati, pietre sui bambini che vanno a scuola, asini rubati… Sono le azioni dei coloni, normalmente integralisti ebrei, convinti che tutta questa terra è stata data loro da Dio.
“Terra”, sì, ma con della gente dentro, non una terra vuota.

 Segni di cambiamento

Oggi non mancano gli israeliani che mostrano solidarietà e sensibilità verso i palestinesi.
Sono i giovani che fanno obiezione di coscienza contro il servizio militare obbligatorio per uomini e donne. Sono disposti ad andare in prigione pur di non abbracciare le armi contro i pastori.
Sono gli avvocati, alcuni già in pensione, che suggeriscono gli articoli di legge favorevoli ai palestinesi, che difendono chi viene imprigionato, che esigono, quando possibile, l’abbattimento di insediamenti israeliani.
Ci sono i poveri di Yaffa ai quali vengono tolte le case per lasciare spazio a ville e resort lungo la riva del mare, non importa se palestinesi o israeliani.
Si comincia a vedere la lotta dei poveri contro i prepotenti.
La lotta delle femministe dell’associazione Ahoti For Women in Israel (Sorelle per le donne in Israele), che a Tel Aviv aprono le porte del loro piccolo centro d’incontro a tutti per denunciare, appoggiare e cercare vie di uscita ai poveracci che, arrivati dall’Africa, vengono abbandonati senza nessun futuro, nel parco vicino.
E’ chiaro che i palestinesi hanno anche i loro problemi interni, il primo e forse il più profondo è la spaccatura tra Hamas e Fatah.
Fino a che punto si può essere mansueti a Gaza, un luogo invivibile, con 5.800 persone per kilometro quadrato (in Italia ce ne sono 201) con problemi gravi di acqua, energia elettrica, mancanza di ospedali, scuole… sotto blocco permanente per terra e per mare, un territorio tagliato fuori dagli altri territori palestinesi. E’ evidente che la maggioranza della popolazione si senta identificata con chi si oppone in modo più violento alla dominazione israeliana.
Intanto la Cisgiordania si incontra praticamente divisa in tre zone:
1. Territorio a controllo e amministrazione palestinese (Area A)
2. Territorio a controllo israeliano ma con amministrazione palestinese (Area B)
3. Territorio a controllo e amministrazione israeliana (Area C)
Mentre il primo copre un 17% del territorio con il 55% della popolazione palestinese. Il secondo copre il 24% del territorio con il 41% della popolazione e finalmente il terzo fa riferimento al 59% con appena il 4% di palestinesi.

La non violenza

Hafez non è l’unico ma è un tassello importante e riconosciuto nelle colline a sud di Hebron.
Lui stesso racconta la sua storia.
Quando era poco più che un ragazzo vide come sua madre era stata maltrattata e picchiata da coloni israeliani finendo in ospedale. Andò a trovarla e le assicurò che avrebbe trovato il modo di vendicarla.
– Cerca un’altra strada – le disse lei. – Se ti vuoi vendicare potrebbero distruggere il nostro villaggio e noi ti perderemo. Alla fine, che cosa si guadagnerebbe?
Un’altra strada. L’unica possibile è quella di resistere usando altri metodi: la non violenza attiva.
Come? I bambini, andando a scuola; i pastori portando il gregge al pascolo. Se c’è un attacco dei coloni tutti gli abitanti si fanno presenti. Se distruggono la moschea, la scuola, le strade… li ricostruiamo. Noi restiamo qui e continuiamo a resistere alle politiche di aggressione con la non violenza.
Il piccolo villaggio di At_Tuwani ha così conquistato il suo diritto ad esistere. Nel 1999 tutti gli abitanti hanno resistito ad ogni evacuazione, anzi, hanno ospitato altri pastori evacuati a loro volta dalle loro terre poco lontane. Con l’aiuto di attivisti israeliani e di un avvocato si è capito che non tutti gli israeliani sono soldati o coloni.
Oggi una presenza preziosa è quella dei giovani dell’Operazione Colomba, corpo nonviolento di pace dell’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII.
Armati di macchine fotografiche e videocamere si muovono continuamente per documentare, dare appoggio con la loro presenza pacifica e diventando l’occhio che vede e discerne i fatti.
Un continuo, a volte quotidiano, report fa arrivare all’estero la documentazione in italiano e in inglese. La gente si sente collegata con la solidarietà internazionale, i soldati e i coloni hanno sopra di loro gli occhi attenti di tanti che non accettano l’ingiustificabile.
Dal 2010 At-Tuwani è collegata con la linea elettrica, che arriva da Yatta, la più grande città palestinese della zona, facendo passare i cavi sopra la bypassroad, (una strada che collega le colonie israeliane) cosa finora impensabile.
L’acqua è assicurata più o meno grazie a dei depositi, a delle cisterne che sono state legalizzate.
I bambini arrivano dal villaggio di Tuba accompagnati da una scorta dell’esercito israeliano per difenderli dagli attacchi dei coloni. Se un colono si presenta incappucciato lungo la strada per terrorizzare i ragazzi, gli internazionali e le famiglie arriveranno a tempo per proteggerli mentre i soldati cercheranno di mostrare la loro affidabilità.

Un momento privilegiato

A fine ottobre l’Unione Europea ha organizzato un workshop, un momento di incontro, di riflessione, di solidarietà.
Grazie ai responsabili dell’ Operazione Colomba sono stato scelto per accompagnare quel momento.
– Te la senti?
– Non saprei. Proviamo.
E’ stata una settimana, che si andava costruendo quasi di giorno in giorno.
Incontri che creavano altri incontri. Dal Centro di Informazione Alternativa a Beit Sahour, a est di Betlemme siamo passati al “Kairos Palestina”, un movimento di cristiani, che hanno prodotto un documento serio e profondo per costruire cammini di pace e riconciliazione nella Terra Santa. E ancora con il gruppo della Teologia della liberazione palestinese, un gruppo piuttosto agguerrito, e le femministe di Tel Aviv, gli avvocati che difendono le case di Yaffa, finché sarà possibile, ecc.
Le date poi cambiavano, affinché non coincidessero con la festa di Ismaele, quando bisognava sacrificare cammelli e mucche.
Finalmente il lunedì 29 ci siamo trovati a Al-Mufaqara, su, in alto sulla collina. Erano riuniti i capi di diversi villaggi, i giovani, le donne e i bambini del luogo.
Mi avevano proposto un tema “Lotta nazionale e perdono personale”.
Non avevo voluto preparare nessun testo. Volevo vedere con i miei occhi la realtà, il volto della gente, entrare nelle loro case, nelle loro grotte. Penso che sia stata una scelta giusta.
Come si può parlare di perdono in questa situazione? Mi sono posto questa domanda ad alta voce in italiano, tradotta all’arabo.
– Un mese fa mi hanno ucciso una pecora e posso perdonare, una settimana fa mi hanno ucciso una pecora e posso perdonare, ieri mi hanno ucciso una pecora e posso perdonare. Ma domani me ne uccideranno un’altra, e tra una settimana, e tra un mese e tra due mesi…
Posso perdonare al futuro? all’infinito?
Forse il tema del perdono risulta corto, non più sufficiente.
Vedevo quegli occhi che mi guardavano con attenzione e ho continuato a parlare.
– La lingua ci separa, ma il cuore ci unisce.
Dovessi riassumere non saprei che cosa ho detto, ma ho parlato di resistenza e di non violenza attiva. Della necessità di non perdonare i fatti, ma di guarire la ferita, che quei fatti producono in noi per poter reagire in modo pacifico e umano.
– Purtroppo gli israeliani hanno sofferto molto in Europa e poi anche qui. Ma hanno imparato a reagire con la forza. Sanno combattere con chi è violento, ma non sanno gestire la non violenza. Rimangono spiazzati. Alla fine preferiscono avere a che fare con Hamas e con la guerriglia. A ogni colpo rispondono con il pugno duro, ma con quelli che sanno resistere senza essere violenti? Come si fa?
E alla fine, al momento del riposo, nessuno si è mosso, e sono invece iniziate delle domande a cui ho risposto come potevo.
Un prete cattolico che parlava a una comunità totalmente musulmana.
Ma non ci ho neppure pensato. Ero uno che parlava e che imparava.
Finita la giornata intensa, due giovani volevano a tutti i costi che andassi anche al loro villaggio, un po’ lontano di lì.
“InshAllah, se Dio vuole”. E’ rimasto il desiderio. Forse sarà per un’altra volta.

La conclusione


Alla sera, quando eravamo già scesi a Tuwani, l’esercito e la polizia israeliani hanno catturato lo scheich un pastore molto conosciuto, guida spirituale del villaggio.  Stava lavorando alla sua cisterna.
Aveva guidato l’invocazione iniziale al mattino. Il suo lavoro non era permesso, ma neppure proibito. Quando la figlia si interpose tra il papà e i militari e fu colpita, egli si ribellò. Ecco l’accusa: resistenza a pubblico ufficiale. Le ragazze della Colomba, subito informate, hanno ripreso la scena e si sono guadagnate anch’esse qualche spintone.
Non si può fare di più. Intanto la gente, accorsa in buon numero, non ha potuto impedire che se lo portassero via. Lo avevano già messo nella loro camionetta.
A quel punto tutti si sono ritirati: i pastori e i soldati. Quando tutto sembrava finito la gente tornò su, si organizzò e terminò il lavoro.
Quando lo scheich tornerà dalla prigione incontrerà la sua cisterna, così come lui avrebbe voluto realizzarla.
Ecco la resistenza pacifica.

 

http://www.operazionecolomba.it/palestina-israele/1429-il-paese-che-non-ce.html

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