Le responsabilità dell’Europa e le rivolte nel Nord Africa
La rivoluzione tunisina comincia a Sidi Bouzid nel centro del paese quando un giovane laureato in lingua e letteratura araba si dà fuoco, dopo che un poliziotto zelante o corrotto aveva deciso di confiscare il suo banco di frutta e verdura. Mohammed Bouazizi come Jan Palach a Piazza S. Venceslao. Quella giovane speranza diventata una torcia umana è la cifra simbolica di quella rivolta ma della speranza che ha coinvolto milioni di giovani in Tunisia, Algeria, Egitto e in altri paesi dove la rivolta è scoppiata o cova sotto la cenere della frustrazione e della rabbia sociale.
L’ira collettiva dei giovani che si è diretta contro i simboli del potere, della corruzione del clan Ben Ali e dei templi del consumo dal quale sono esclusi. L’onda lunga della rivolta ha scosso tutto il Maghreb, molto giovane e disperato. Quali sono gli ingredienti di questo cuscus sociale avvelenato? In Tunisia i giovani di meno di 18 anni sono il 30% della popolazione; in Algeria e Marocco un abitante su tre ha meno di 18 anni. In Tunisia un terzo dei giovani è senza lavoro, 18% di giovani senza lavoro in Marocco e in Algeria dove tre disoccupati su quattro hanno meno di trent’anni. Sono chiamati la generazione del “muretto” per le ore trascorse nella noia e la disperazione di conversazioni senza fine nei muretti delle città. Una generazione molto “connected” che usa twitter, facebook e le tv-webcam che sono stati il veicolo della rivolta. Un essere “collegati” che alimenta attese di vita e di consumo che le loro società non possono soddisfare. Queste attese si materializzano oggi negli sbarchi di giovani tunisini in Italia nel tentativo di realizzare il sogno europeo raggiungendo familiari e/o amici in Francia, Belgio, Germania, Inghilterra. E l’instabile transizione tunisino non aiuta questi giovani a cominciare a pensare il loro futuro nel loro paese.
Dopo la Tunisia, il fuoco della rivolta ha contagiato l’Egitto. Un regime eretto a modello di stabilità, fedele alleato degli Stati uniti e primo paese arabo a firmare un accordo di pace con Israele. L’Egitto è ed era un perno fondamentale delle politiche occidentali nella regione. Il prestigio personale di Mubarak e la posizione geostrategico del suo paese hanno pesato nei negoziati multilaterali sulla questione palestinese. Lo stesso atteggiamento dei servizi segreti egiziani nei confronti dell’integralismo di Hamas rappresenta un elemento decisivo negli equilibri interni alla dirigenza palestinese tra Cisgiordania e Gaza. Per questi “meriti” conquistati sul campo del dialogo e della stabilità, il Rais Mubarak è stato a lungo finanziato, sostenuto militarmente con un investimento massiccio e l’economia egiziana si è legata intimamente agli interessi dell’Europa soprattutto nei settori del turismo, delle infrastrutture e dei servizi. L’uscita di scena di Mubarak apre ora delle prospettive nuove ed inedite. Ancora non è dato sapere quali saranno gli esiti della rivoluzione di Piazza Tahrir. Una cosa sicura è che la caduta di Mubarak costringe tutti a cambiare strategia e interlocutori. Un cambiamento che dovrebbe avvenire in tempi ravvicinati tenendo conto del fatto che altri pilastri della nostra politica mediorientale rischiano l’instabilità o addirittura l’uscita di scena. Penso all’Arabia saudita, alla Giordania e ad altri alleati degli Emirati.
La situazione della Libia resta quella più emblematica oltreché drammatica per gli effetti sulla popolazione civile, sul futuro prossimo del paese e – alla lunga – sulla stessa stabilità dell’Italia e dell’Unione europea. In effetti, dopo decenni di isolamento dalla scena internazionale per essere stato catalogato come Stato-canaglia, la Libia ha ritrovato il suo posto tra le nazioni frequentabili nel 2004. inizia allora il nuovo “scramble for Africa” (l’arrembaggio) delle nazioni europei per diventare il miglior amico di Gheddafi. L’Italia è in testa ai paesi che si recano nella mitica tenda del leader libico per stringere amicizia e affari. La firma del”famoso” trattato di amicizia italo-libico è il sigillo officiale di un lungo corteggiamento. Tre sono le clausole principali dell’accordo: il contrasto all’immigrazione clandestina; il risarcimento dei danni provocati dalla colonizzazione italiana in Libia monetizzato in un investimento di 5 miliardi di dollari nelle infrastrutture libiche da parte delle imprese italiane nei prossimi vent’anni, infine un fitto partenariato economico (Gheddafi ottiene l’1% delle azioni ENI) e molte aziende italiane s’insediano nel territorio della Jamahirya libica. Lo stesso slancio amichevole ed interessato manifestano anche la Francia (contratti di collaborazione per un impianto di dissalazione dell’acqua marina con un reattore nucleare), la Spagna (con l’azienda Repsol che ha investito 38,03 milioni di euro in Libia) e tutta l’Unione europea nonostante le flagranti violazioni dei diritti umani perpetrati da Gheddafi e malgrado una repressione feroce a danno degli immigrati illegali respinti dal nostro paese in paese alla legge sui respingimenti varata nell’estate del 2009. Non si può fare a meno delle riserve di petrolio libico che ammontano a 40 miliardi di bari e a 1.500 miliardi di m3 di gas naturale. La nostra diplomazia ha balbettato cose insignificanti all’inizio della crisi libico. Dalla sconsolante dichiarazione di Berlusconi che ha candidamente ammesso di non aver chiamato Gheddafi per “non disturbarlo” fino all’infelice uscita del ministro Maroni che chiede agli americani di “darsi una calmata”, passando per l’affermazione complice di Frattini all’inizio della crisi tunisini secondo la quale la Libia era un modello nella regione.
La diplomazia europea – e la nostra ancora di più per la vicinanza politica e di interessi – hanno scelte da decenni di guardare altrove. Invece di Sidi Bouzid, abbiamo scelto Sidi Bou Said (detta anche la St-Tropez della Tunisia) ossia l’appoggio alle élite corrotte e totalitarie. E non convince la motivazione di difendere la stabilità contro l’avanzata del fondamentalismo. E’ vero il contrario. Ignorare l’antropologia della rabbia che esprimono questi giovani significa alimentare il brodo di coltura dei fondamentalisti che nei Suk e nelle “Medina” predicano la giustizia sociale e la lotta alla corruzione ai giovani frustrati.
Dobbiamo imparare la lezione e impostare le nostre strategie politiche ed economiche nell’ottica di arginare questi fermenti trasformando questi giovani, assettati di libertà e di modernità, nei migliori alleati dell’Europa. Altrimenti il fuoco di Sidi Bouzid brucerà anche noi. Dobbiamo trovare la strada per mettere insieme i nostri valori di democrazia, di libertà e di giustizia con la salvaguardia dei nostri interessi. Quella stabilità cinica basata sulla povertà e l’illibertà altrui si è rivelata fragile.
La vera e duratura stabilità risiede nella nostra capacità di allearci con le popolazioni che anela alla libertà e alla democrazia. Per troppo tempo ed erroneamente si è pensato che la stabilità e i nostri interessi nazionali potessero essere tutelati a discapito di valori come la democrazia, il rispetto dei diritti umani e un’equa distribuzione della ricchezza. Come se di tutto ciò sull’altra sponda del Mediterraneo si potesse fare a meno. Siamo andati a cena, a pranzo, abbiamo coccolato e ricevuto con tutti gli onori i leader che per noi rappresentavano quest’abilità per scoprire solo adesso che era un’idea basata sul nulla. E non parlo solo dei governi. Andando in vacanza in queste località oggi interessate dal vento di rivolta abbiamo fatto finta di non vedere, di credere che il giovane tassista dovesse accontentarsi della piccola mancia che gli davamo.
Siamo stati ipocriti, ciechi e schizofrenici: con la destra proclamavamo valori che gli toglievamo con la sinistra. Considero un peccato il fatto che la nostra classe dirigente abbia considerato la legge sui respingimenti come una legge qualunque. Invece ha sancito l’immagine di un’Europa fortezza, che si chiude in un rifugio geostrategico di fronte alla crisi economica. In questo modo noi non facciamo integrazione all’interno delle nostre frontiere e non facciamo cooperazione per eliminare i fattori di espulsione degli immigrati dai loro paesi piegati dalle guerre e dalla povertà. Con leggi del genere si è creato un solco, anzi una vera deriva dei continenti dal punto di vista politico. I popoli del Nordafrica, ma anche dell’Africa Subsahariana, hanno tacciato di cinismo e indifferenza l’Europa.
Si scatena cosi una rabbia che neanche il passato coloniale aveva potuto generare. Perché questi giovani si sono trovati ingabbiati in una doppia solitudine: soli di fronte agli autocrati locali e soli di fronte alla comunità internazionale distratta. Non si può parlare di immigrazione né di politica estera senza parlare di cooperazione. L’ondata migratoria ci seppellirà se non sapremo avere una politica più intelligente e lungimirante. Questa politica si chiama creazione di uno spazio euro-africano inteso strategicamente come interesse dell’Europa e dell’Italia
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