Il suono oltre il Muro

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admin | December 13th, 2011 – 5:58 am

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La notizia: La Knesset, il parlamento israeliano, deve occuparsi di varie proposte di legge. Tra le tante, c’è anche quella che ormai sta passando nel linguaggio giornalistico come “la legge del muezzin” o “la legge delle moschee”. L’ha presentata una deputata del partito di  Avigdor Lieberman, il partito di destra più importante degli ultimi anni in Israele. La relatrice, la signora Anastasia Michaeli, ne fa una questione di ecologia dei suoni e non una questione religiosa: vuole che vengano vietati gli altoparlanti che diffondono la chiamata alla preghiera dai minareti. Una legge che però è generale, e dovrebbe toccare – di norma – anche le campane. Il giornale israeliano Haaretz comunica oggi che Benjamin Netanyahu appoggia la legge, chiedendosi – peraltro – perché Israele debba essere più liberale dell’Europa. In effetti, abbiamo fatto scuola, quando è passato il referendum in Svizzera che vietava la costruzione dei minareti…

La chiamata alla preghiera musulmana disturba, insomma. Da abitante di Gerusalemme da oltre otto anni, a poche centinaia di metri dalla moschea di Al Aqsa, mi viene difficile comprendere come mai la adhan disturbi tanto. A me, anzi, fa molto piacere. La adhan non mi ha mai svegliato prima dell’alba. Semmai mi ha cullato, e quando mi è capitato di essere sveglia a quell’ora mi ha anzi accudito.

Mi viene da pensare, dunque, che la chiamata alla preghiera disturbi per altri motivi. Me ne accorsi tanti anni fa, a Mostar, in Erzegovina. La città era tagliata in due, da una parte i cristiani, dall’altra i musulmani. Io ero nella parte cristiana, ma il suono della chiamata alla preghiera superava senza alcun problema quella terribile strada su cui si affacciavano gli scheletri delle case bucate dai colpi di mortaio e che fungeva da linea di separazione. I suoni travalicano i Muri, è banale dirlo. In città come Gerusalemme e in aree di conflitto severo come questo, persino i suoni sono parte integrante della guerra. Perché i suoni possono ricordarci che l’Altro esiste, anche se è stato nascosto dietro a un Muro.

Prima di continuare a leggere, una sosta sonora è d’obbligo. Questa è la chiamata alla preghiera cantata da Yusuf Islam. Ai miei tempi, si chiamava Cat Stevens.

(la foto, a Gerusalemme in Città Vecchia, è stata scattata da Pino Bruno)

Il ritmo (antico) del giorno

Se penso a cosa rimpiangerò, di una città troppo santa (o meglio, santificata) come Gerusalemme, è questo momento. Il sole sta appena tramontando. Il cielo è striato di rosa, e ad annunciare l’evento è questo canto che si innalza all’unisono. Nessun cedimento alla distrazione che ci impongono le nostre cose, i nostri intimi ritmi. È il tramonto, e tutti lo devono sapere. Perché è questione di pochi minuti, e poi tutto scomparirà dietro l’imbrunire.

La chiamata musulmana alla preghiera è un gesto antico, che noi cattolici ci siamo dimenticati. Eppure era parte integrante della nostra giornata: la campana dei vespri ha identico significato, ricorda agli uomini che la giornata di lavoro è finita, ed è ora di tornare a casa.

È questa scansione del tempo che rimpiangerò. Una giornata segnata non solo e non tanto dallo spazio. Ma dal tempo, dal ritmo, dal suono, che irrompono nella vita ricordandoci – appunto – che la vita è tempo, scansione, gesti compiuti, passato che non torna, presente che corre così tanto in fretta. È come se questi canti che segnano le cinque preghiere dell’islam siano qui a ricordare, a me che musulmana non sono, quanto il tempo e l’intervallo siano preziosi. Fadwa el Guindi, grande antropologa egiziana, spiega molto bene questa unità – presente nel mondo musulmano – tra temporalità e spazialità. A unire tutto è il ritmo. “Il ritmo – dice Fadwa el Guindi nel suo By Noon Prayer. The Rhythm of Islam, pubblicato nel 2007dai tipi della Berg – è il concetto che meglio descrive questa unità. […] I musulmani seguono un ritmo in tutte le sfere della loro vita – privata e pubblica, ordinaria e sacra, nel lavoro e nel relax. Il ritmo non è solo una idea unificatrice, ma integra le sfere dell’esperienza della vita e vi introduce i processi mentali e le categorizzazioni del pensiero”.

Molto più prosaicamente, il suono della adhan, della chiamata alla preghiera, è il ritmo naturale che viene ricordato a noi singoli, distratti. Ci viene ricordato che è l’alba di un nuovo giorno, che è arrivata la metà della giornata, che è già tramonto, che tra un  po’ si va a dormire. Uno scandalo, a pensarci bene. Perché questa divisione antica è percepita, dall’uomo postmoderno, come una semplice costrizione. Costretti in un tempo considerato arcaico, proprio quando la concezione postmoderna considera del tutto crollati i muri che contenevano il tempo. Si può mangiare quando si vuole, svegliarsi tardi, saltare la colazione e inventarsi il brunch, tenersi leggeri a pranzo con un panino veloce e magari cenare tardi la sera per riuscire a vedere gli amici. Si possono saltare i ritmi antichi e inventarsi i propri, di intervalli. Perché mai dover cedere al ricatto di un tempo preordinato, e per giunta imposto da una fede?

Eppure, nonostante il mio tempo singolo sia  dichiaratamente postmoderno, quella chiamata alla preghiera è preziosa. Mi riporta ai tempi veri, per alcuni versi più consoni a una natura che abbiamo violentato con gli anni e i secoli.

L’adhan sveglia Gerusalemme

E’ questo ritmo antico che sveglia Gerusalemme prima dell’alba, quando – d’un tratto – un bagliore rosso compare dietro la sagoma del Monte degli Ulivi e del campanile della Chiesa dell’Ascensione. Perché se lo spazio, a Gerusalemme, è dominato dalla presenza politica, dalla gestione dello spazio da parte delle autorità israeliane, il tempo e i suoni della città sono segnati da due fedi – cristianesimo e islam, – che si intersecano come volute nell’aria attorno alla Città Vecchia.

La chiamata alla preghiera sale prima sommessa, per poi organizzarsi come un coro che comprende tutti i minareti della parte orientale di Gerusalemme, guidati – o almeno così sembra a chi, profana, ascolta – dal canto più suadente e rigoroso. Quello dell’imam scelto per chiamare i fedeli a raccolta dalla moschea di Al Aqsa. La più importante di Gerusalemme, la più sacra dopo Mecca e Medina. La moschea “più lontana”, come viene definita nel Corano, quella presso la quale il profeta Mohammed fu portato in sella a una cavallo alato, il Buraq, in compagnia dell’arcangelo Gabriele, per poi essere riportato alla Mecca dopo aver visitato il paradiso.

L’imam della moschea più importante di Gerusalemme chiama a raccolta i fedeli per la preghiera del fajr, dell’alba, da un luogo che alle origini dell’islam  era la destinazione stessa della preghiera. Nei primi tempi dell’islam, insomma, si pregava in direzione di Gerusalemme, e non invece in direzione della Mecca, come poi fu statuito.

Ascoltare il coro degli imam che intonano la adhan è una delle poche esperienze realmente mistiche di Gerusalemme. Come se la Città Vecchia, costretta nelle sue possenti Mura, nascesse con quel bagliore rosso che nasce a oriente del Monte degli Ulivi. E a svegliarla, ogni mattina, ci fosse quel canto antico e commovente. Mentre la città ancora dorme, il cielo non si è ancora aperto alla luce, e l’aria è invece ricolma, felicemente piena di un canto collettivo e coordinato.

Cristianesimo e islam si dividono, nei fatti, la Gerusalemme dei suoni. Adhan e campane. Chiamata alla preghiera e rintocchi. L’ebraismo è silenzioso, almeno al di fuori delle sinagoghe. Compare una volta alla settimana, con una sirena che non indica allarme, ma viene usata per segnalare che sta per iniziare lo shabbat. Una sirena che indica un rito dà il segno di quanto la sicurezza segni l’antropologia della fede – o almeno di una fede – a Gerusalemme. Urgenza, emergenza, e quel pericolo che sempre incombe.

Discontinuità necessaria, per la playlist. Time after time, Cyndi Lauper. Ed è passato veramente tanto tempo. Videoclip del 1984.

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