Il tempo degli artisti

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admin | March 2nd, 2014 – 10:10 am

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Certe volte succede che le parole si rincorrano, più e più volte, come in un piano preordinato, senza che vi sia – o almeno appaia – la nostra volontà. Sono giorni (e nella mia testa anni, a dire il vero) che “tempo” e “artisti” si rincorrono tra di loro, come in un corteggiamento silenzioso. Lo fanno, anche se a prima vista il legame tra loro è ermetico. Poi scopri che qualcun altro, colleghi, amici, ha nella testa le stesse due parole impegnate in un singolare balletto.

Non la faccio tanto lunga. Continuo a sostenere che questo sia il tempo degli artisti, per fare propria la sofferenza dell’Altro, a Yarmouk e dovunque. E poi, d’un tratto, scopro da dov’è nata questa costante riflessione su chi, quale categoria, quale tipo umano avrebbe meglio descritto dolori, lutti, grida, devastazione. Ho riletto un’intervista che avevo fatto a Hany Abu Assad nella sua casa di famiglia a Nazareth. Un’intervista lunga, piacevolissima, conclusasi come ben si conviene in una casa palestinese. A mangiare un piatto di hindbeh, di cicoria locale ripassata in padella con la cipolla e condita con il summacco, offerto dalla mamma del regista, con quella tipica forza tranquilla che caratterizza molte donne palestinesi.

Diceva Abu Assad che non era ‘il tempo degli artisti’. Era il 2008, e certo anche quello non era un bel periodo. Abu Assad era già conosciuto, allora, perché il suo bellissimo Paradise Now era già stato inserito nella cinquina delle candidature straniere all’Oscar, ma non si sarebbe potuto presentare come un film palestinese. Perché la Palestina, sulla mappa, non esiste. O non esiste più. Esiste come entità, e non come Stato.

Eppure, anche allora un artista come lui era riuscito a descrivere molto meglio di altri una città palestinese – Nablus -, la sua anormale quotidianità e quella dei due giovani protagonisti del film. Un film controverso su giovani, su potenziali attentatori suicidi, sul collaborazionismo, sull’occupazione, su madri silenziose, su cattivi maestri ridicoli. Ora – anno domini 2014 – ho capito perché Abu Assad diceva che non era il tempo degli artisti. Legava questo tempo alla paura. Dopo il 2011, abbiamo scoperto – noi osservatori – che proprio quella paura dei regimi, dello scontro, delle dittature, aveva consentito agli artisti di preparare sottotraccia per i ragazzi di Tahrir un armamentario culturale, teorico per affrontare il muro di cristallo della paura.

Perché mi viene in mente Hany Abu Assad? Perché ho letto un articolo di Maria Pia Fusco sugli altri film candidati a migliore pellicola straniera all’Oscar. E per l’ennesima volta l’orientalismo non solo ha fatto capolino, ma è entrato con tutte le scarpe in un articolo in cui quella palestinese è definita una cinematografia remota. Se anche si trattasse di una definizione geografica, questo ‘remoto’ sarebbe ancor più incomprensibile, visto che i palestinesi sono appena dall’altra parte del Mediterraneo, e non dall’altra parte del mondo. Oddio, non c’è nemmeno bisogno di dirlo. Oddio, è ancora necessario dirlo?

Se invece ‘remoto’ significasse lontano, esotico, e magari poca tradizione, sarebbe persino imbarazzante commentare. La questione è che Maria Pia Fusco definisce la cinematografia palestinese forte solo in quanto portatrice di un messaggio politico. Come se il messaggio – politico, sociologico, antropologico? – non vi fosse nella nostra Grande Bellezza. Che senso ha, anche dal punto di vista della critica artistica del prodotto? Perché solo la cinematografia palestinese (e araba) deve subire questo doppio screening prima di essere definitiva degna? Sarà perché di là, a est del Mediterraneo (non più a sud) pensiamo ci siano “i leoni”?

Comunque, ecco la mia intervista a Hani Abu Assad del 2008. Quando non era (ancora) il tempo degli artisti.

Non è il tempo degli artisti. È il tempo dello scontro e della paura. Il tempo che soffoca gli artisti. Hani Abu Assad, il regista-rivelazione di Paradise Now, attende che passi la tempesta, che passino i tempi duri, perché l’arte ritrovi il suo posto. Il Medio Oriente non ha smesso di essere un campo di battaglia, e parole come pace, riconciliazione, giustizia sono considerate, da chi vive da queste parti, gli involucri vuoti da usare sotto i riflettori dei vertici, delle strette di mano, dei sorrisi di circostanza. “Siamo tutti falliti: noi artisti, voi giornalisti. Anche le Nazioni Unite”, dice nella sua ampia e semplice casa di famiglia a Nazareth, Galilea, cuore della consistente minoranza araba d’Israele. “Il Potere ha deciso che non c’è spazio, ora, per l’arte, per la moderazione, per il pacifismo. C’è solo spazio per la scontro, la manipolazione e le paure irreali. E in una situazione del genere, qualsiasi cosa si faccia, è senza peso. Il Potere non ha bisogno di noi, artisti o anche giornalisti o testimoni. È il tempo dei muscoli e della lotta, e ruoli come i nostri sono marginali: siamo esclusi, almeno a breve termine, dall’aver peso nelle decisioni politiche che, pure, riguardano tutti noi”.
Sorprende, che il senso di impotenza tocchi un regista come Abu Assad, che è riuscito a portare un tema-scandalo come quello degli attentati suicidi, del conflitto israelo-palestinese, nel tempio di Hollywood. Nella cinquina per il migliore film straniero negli Oscar del 2006, Golden Globe lo stesso anno. Un successo accompagnato da una pletora di premi americani, europei, arabi. “Sì, non mi sarei aspettato di vincere così tanto. E di essere scarrozzato in limousine. Un contrasto feroce con la realtà della Cisgiordania, di Nablus, dove Paradise Now è stato girato, e dove per sei mesi ho messo in pericolo ogni giorno la mia vita e quella della troupe”.
Per Hani Abu Assad, dunque, questo non è il tempo degli artisti, anche se il grande salto nel cinema di Hollywood, il regista palestinese lo ha fatto: sta girando un film con Nicolas Cage, ambientato a Berlino, che parla di un padre alla ricerca di suo figlio, dato per disperso. “Sto girando anche un corto di tre minuti per l’Onu, per celebrare la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, assieme ad altri 22 registi di tutto il mondo. Girerò sul “diritto alla partecipazione”, che – come sempre faccio – descriverò in maniera tragicomica”. Tragicomico è anche il commento di un uomo che proprio grazie all’exploit di Paradise Now, nel 2007, è stato messo al quarto posto tra i cento arabi più influenti. “Altro che celebrare la Dichiarazione Universale. Dovremmo, invece, celebrarne il suo funerale”. E spiega. “Guardi il Muro, in Cisgiordania: è la fine dei diritti umani. Non è solo disconnettere, separare gli uomini dagli uomini, ma gli animali, il ciclo stesso della natura. Quando si dimenticano i diritti umani in nome della lotta al terrorismo, allora si va sempre più indietro, indietro, indietro, sino a che si arriva al disastro. All’immane disastro in mezzo al quale già ci troviamo”.
E allora, che spazio c’è, per uno come lui, passaporto israeliano, tanti anni trascorsi in Olanda e una formazione cinematografica europea, che parla della sua identità palestinese come di un “caso che non riguarda Israele e Palestina, ma che riguarda il principio di non esclusione, il diritto all’eguaglianza e alla condivisione”? “L’unica cosa che posso fare è continuare a fare il mio lavoro di regista, a girare film che rimangano nella storia”, dice. “La mia unica speranza di regista palestinese è che queste mie storie diventino una sorta di metafora della tragedia reale, che è grande e complessa. Iniziata in Europa, con il crimine commesso sugli ebrei, con il risveglio dell’Europa e la consapevolezza di quel crimine, che ha portato l’Europa a commetterne un altro. Creando uno stato ebraico senza prendere in considerazione il fatto che ci fosse un altro popolo, quello palestinese, che viveva qui. Risultato: una parte dell’Europa adesso si sente doppiamente in colpa”.
Dal conflitto, dunque, non si scappa. Come se sugli artisti palestinesi gravasse un destino tutto particolare, quello di fare arte solo attorno alla propria questione politica. Una sorta di gabbia senza uscite. “Ma io sono parte di questa tragedia. E non si può fuggire dalla propria esperienza, a meno che non si voglia fare solo spettacolo”, spiega senza enfasi. “Io voglio fare arte, e l’arte è ciò che ti tocca da vicino: cioè la mia tragedia. La faccia dominante dell’arte palestinese, è vero, è chiusa nella trappola dell’autocommiserazione, che non fa trascendere la propria arte e la rende universale. Piena di significati più complessi che non sia solo la propria sofferenza. E guardare gli altri che soffrono provoca pietà nello spettatore. Non fa sentire, invece, che gli altri sono eguali a noi”.
Sa che le cose che dice in Europa possono non essere considerate moderate. “Ma chi si arroga il diritto di decidere, anche per me, cos’è moderato, razionale, oppure – al contrario – cos’è intransigente? Ora le spiego quanto io sia moderato, nelle mie posizioni. Sulla mia terra, la terra della mia famiglia, vive una famiglia di israeliani ebrei. Ebbene, su quella terra, la mia terra, possono rimanere per sempre. Ma da eguali. Non da persone superiori a me”

 

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