Il terrorismo e l’informazione in Israele a tempi del «gag order»

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C’è lui, l’aggressore, che arriva dalla Cisgiordania. Ci sono loro, le vittime (tra morti e feriti), israeliane. C’è la dinamica. Ci sono i fermi. L’inchiesta. Il solito codazzo di polemiche, politiche e militari. Poi c’è l’informazione. Che quando ha il marchio di cronisti come quelli di Haaretz e Yedioth Ahronoth, Maariv e Jerusalem Post,Canale 2 e Canale 10, ecco ha una qualità e un’attendibilità che molti – in Europa – si sognano. Soprattutto quando c’è un ordine della magistratura che invita sì a raccontare il fatto, ma senza rivelare troppi dettagli, senza aggiornare sulle indagini, senza fare vedere foto di volti. Soprattutto: senza rendere pubblici i nomi e cognomi. Dei carnefici e delle vittime.

È successo anche domenica 9 ottobre 2016. Il periodo dell’informazione istantanea e dei social network. Un palestinese ha attaccato diverse persone lungo il percorso del tram a Gerusalemme. Due israeliani hanno perso la vita. Altri cinque sono ricoverati in ospedale. L’aggressore è stato poi ucciso dalla polizia. Hamas si è congratulata: «È la reazione naturale ai crimini perpetrati da Israele», ha detto un suo portavoce.

In parallelo la polizia israeliana ha inviato un messaggio ai media: «Tutti i dettagli dell’inchiesta in corso, i nomi dei feriti, dei morti e del terrorista sono sotto un gag order», cioè un obbligo di non pubblicazione. Piccolo particolare: nel frattempo i giornalisti israeliani e stranieri avevano già raccontato la storia. Avevano scritto nomi e cognomi. La notizia aveva preso il sopravvento su Facebook e Twitter. «Più di un giorno dopo il nome del palestinese 39enne che si è messo a sparare alle 10 di domenica mattina non si può scrivere», commenta Judah Ari Gross su Times of Israelevidenziando la contraddizione nell’applicare le vecchie regole al nuovo mondo dell’informazione.

Ari Gross ricostruisce anche le fasi del «gag order». Alle 11.15, un’ora e un quarto dopo l’attacco, la polizia chiede e ottiene da un giudice di Gerusalemme il via libera a imporre il divieto di non pubblicazione. «Chi viola la decisione sarà denunciato», è la minaccia. «Ma tre ore dopo gli stessi poliziotti pubblicano il nome dell’agente ucciso, Yosef Kirma, due sue foto e le informazioni relative alla vittima sia via mail che sull’account Twitter», scrive Ari Gross. «Poco dopo succede lo stesso con la seconda vittima, Levana Malihi, 60 anni».

Non bastasse è lo stesso ufficio del ministero della Difesa a mettere, su Twitter, la foto del terrorista (anche se modificato per renderlo irriconoscibile), salvo poi eliminare il cinguettio. Da lì è un diluvio di immagini postate sui social. Tutte in violazione del «gag order». Divieto di pubblicazione che, ufficialmente, resta valido per un mese (30 giorni). Ma che, fa intendere Ari Gross, forse dovrebbe essere rivisto.

© Leonard Berberi

 

Il terrorismo e l’informazione in Israele a tempi del «gag order»

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