Immagina. Immagina che vengano nella tua terra, nella tua casa. Immagina che ti dicano di partire, di lasciare tutto in cinque minuti, di portare con te solo l’essenziale, quello che riesci a prendere in cinque minuti. Immagina che ti dicano che torneai tra quindici giorni, ma che dopo sessant’anni quei quindici giorni non siano ancora trascorsi.
Perché la tua casa, quella di cui conservi ancora la chiave, non c’è più. Perché il tuo villaggio non c’è più: è stato raso al suolo, cancellato persino nel nome, mentre là dove era il tuo villaggio oggi c’è la città di un altro Stato, con gente venuta da lontano, che parla un’altra lingua e che sostiene che la tua terra in realtà era sua per promessa divina…
Poi immagina di vivere in una tenda o in un campo profughi, in una stanza di tre per tre per quindici persone. Immagina di non avere elettricità e di non aver acqua, perché la tua acqua serve ad un villaggio di coloni che, nel pieno del deserto, fanno fiorire un’oasi di verde, ma non per i tuoi figli. Immagina di essere costretto per quarant’anni ad usare bagni in comune e immagina di dovere ogni giorno fare dalle tre alla cinque ore di coda per passare un check point e recarti al lavoro e poi farne altrettante dopo il lavoro, per tornare a casa. Immagina un soldato che affondi le sue mani nel tuo pezzo di pane, sbriciolandolo, per controllare se ci hai messo una bomba, e immagina che quelle briciole saranno il tuo pranzo. Immagina che tua figlia abbia la scogliosi, tanto da rischiare la carrozzella, ma che non puoi curarla, perché gli ospedali di Gerusalemme, per te che vivi a Betlemme, sono chiusi: non hanno posto…
Immagina di non poter circolare liberamente, di non poter far nulla per cambiare la situazione, immagina di vivere nel terrore, mentre tutti ti considerano terrorista: immagina tutto questo e, se ce la fai ancora a non smettere di pensare, avrai una pallida idea di cosa vuol dire essere palestinese dalla naqba fino a oggi…
Già. La Naqba! Quanti occidentali conoscono il significato di questa parola? Cinquecento villaggi rasi al suolo. Settecentomila profughi. Un disastro: ecco il significato di una parola che Israele ha messo all’indice, per coprire le proprie responsabilità. Israele: il popolo della Shoah, che ha inventato e messo in atto la Naqba, la sciagura del popolo palestinese, reo esclusivamente di vivere da duemila anni sul suolo che il pio ebreo considera promesso a lui direttamente da Yhwh!
Tutto questo non è giusto… Oggi, in realtà, Israele, il popolo monoteista per eccellenza, ha anche un altro dio. Si chiama: sicurezza! In nome della sicurezza, Israele si sente in diritto di occupare tutto: i territori della Cisgiordania come quelli della Striscia di Gaza, Gerusalemme Est come tutta la terra intorno a Betlemme. Ma soprattutto Israele occupa, cioè espropria, il tempo e lo spazio dei palestinesi: tutto il loro tempo e il loro spazio, per costringerli ad una morte lenta, all’esasperazione, a ribellarsi – e così subire una violenta repressione, viste le impari forze in campo – oppure ad emigrare – e così permettere ad Israele di conseguire il vero obiettivo della sua politica di occupazione: ottenere il massimo del territorio con il minimo di presenza araba possibile. Tutto questo non è giusto…
E l’Occidente? L’Occidente tace e, quando parla, parla per emettere una risoluzione che nessuno seguirà, che Israele non seguirà. Oppure parla per condannare la violenza, intendendo l’uso dei razzi kassam, mentre Israele può lanciare un’operazione come quella di “Piombo fuso”, nella Striscia di Gaza. Poco importa se i razzi Kassam, in dieci anni, hanno fatto dieci morti e “Piombo fuso” ne ha fatti millecinquecento (per due terzi donne e bambini) in venti giorni, utilizzando le bombe al fosforo e chissà quali e quante altre armi non convenzionali. Tutto questo non è giusto…
L’Occidente denuncia Hamas per il giovane soldato israeliano tenuto prigioniero, ma nulla ci dice dei diecimila palestinesi scomparsi nelle carceri israeliane. L’Occidente pontifica sul diritto di Israele ad avere uno Stato, ma nulla dice del perché, ancora oggi, un cittadino arabo di Gerusalemme, dovrebbe sgombrare la propria casa, legalmente acquistata, per cederla ad un colono russo naturalizzato ebreo.
L’Occidente ha delle gravi responsabilità. L’Occidente violenta la pace e usa la parola democrazia come il belletto che copre le rughe di un volto spietato: un volto assetato di potere per la cui logica si allea col più forte, abbandonando al suo destino il più debole.
Si ha ovviamente il diritto di non credere a queste affermazioni, ma allora: perché non controllare con i propri occhi? Perché non vivere in Palestina? Perché non condividere anche solo per pochi giorni le condizioni di questi nostri fratelli in umanità? Chi scrive lo fa dopo avere visto con i propri occhi e toccato con le proprie mani1 Lo fa, dopo essere andato e tornato in Palestina, dopo essere stato accolto, con altri cinquanta pellegrini, per dieci giorni, nella case delle famiglie palestinesi.
Già, i pellegrini. Visitano i luoghi santi in 800.000 mila ogni anno. Eppure la loro quasi totalità non ha la più pallida idea della situazione dei Territori Occupati nella West Bank. Non sa perché un bambino palestinese non solo non possa essere curato a Gerusalemme, ma non possa neppure giocare nell’unico parco giochi della provincia di Betlemme, cioè in Palestina. Non sa perché ancora oggi in un campo profughi si abbiano in media, a testa, cinque litri di acqua al giorno per bere, cucinare e lavarsi, mentre in un insediamento di coloni ebrei, edificato illegalmente a due passi dal medesimo campo profughi e in pieno deserto, si debba assistere alla nascita di giardini che nulla hanno da invidiare a quelli della ridente e verde Svizzera. Mi chiedo: dove sono le coscienze dei cristiani che pregano per la pace del mondo, si recano sul Santo Sepolcro e dimenticano che il Risorto non è più in quella tomba vuota, ma che va cercato tra i poveri, i derelitti, gli ultimi tra gli ultimi i cui diritti vengono ogni giorno negati? E dimenticano che in Terrasanta questi ultimi non sono lontani né invisibili, purché li si voglia vedere. Anche questo non è giusto…
C’è, dunque, speranza oggi per la Palestina e Israele? Ci sarà mai la pace in Terrasanta? Non è facile rispondere a queste domande. Visitando quei luoghi, si ha come l’impressione che una bomba a orologeria si stia innescando, ogni giorno di più. Tutti i discorsi sui due popoli in due Stati o sui due popoli in un solo Stato cadono come foglie al vento dinanzi all’evidenza di una situazione assurda e insostenibile, ma soprattutto, davanti alla constatazione che Israele non vuole la pace: vuole la terra, la vuole tutta e la vuole senza palestinesi.
Eppure i semi di pace non mancano. Sono quelli che si incontrano ascoltando ebrei osservanti come Daniela, che punta il dito con fermezza contro le responsabilità del suo popolo, o ascoltando Geries, palestinese e cittadino di Israele, che guida un centro di dialogo ecumenico, o visitando Neve Shalom /Wahat al Salam, un villaggio edificato, trent’anni fa, da venti famiglie arabe e da venti famiglie ebree, capaci da allora di convivere in pace.
Un seme di pace ha voluto gettarlo anche chi come noi ha scelto di vivere il proprio pellegrinaggio risiedendo non in lussuosi alberghi a cinque stelle, ma nelle umili e ospitalissime abitazioni dei cristiani arabi di Beith Sahour, vicino Betlemme. Proprio questi cristiani palestinesi, una risicatissima minoranza, sono il più importante seme di pace, a giudizio di chi scrive. Essi sono arabi e palestinesi, ma anche cristiani e israeliani. Sono cioè l’ultimo ponte di dialogo tra due culture, quella araba e quella ebrea, che di per sé ignorano il concetto di perdono.
E proprio di perdono ha invece bisogno questa terra. Di perdono e di giustizia. Senza giustizia non c’è pace, ma anche senza perdono non c’è pace. La speranza è che laddove non può o non potrà più giungere la giustizia, possa giungere il perdono. Salam!
Paolo Farina
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