Incontri coi siriani: la famiglia di Hama

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Incontriamo Fatima* mentre passeggiamo nella parte vecchia del campo. Vecchia nel senso che è la prima area ad essere stata creata. Qui molte case hanno addirittura un allaccio elettrico, ovviamente illegale. Molti hanno anche una sorta di cortiletto o una doppia entrata, fatta con le tende delle famiglie che se ne sono andate dal campo. La gente è in qualche modo più tranquilla, ha iniziato una nuova quotidianità, parla della tragedia vissuta in Siria con meno enfasi e spavento.

Fatima però nel campo ci è arrivata da poco, da poco più di un mese. Ma vive nella parte vecchia perché le sue figlie sono ferite e hanno bisogno di cure giornaliere nel vicino ospedale all’interno del campo. Fatima ha il viso stanco e segnato e dimostra molto più dei suoi 35 anni. Ci racconta la sua terribile storia con un sorriso sulle labbra.

Siamo originari di Hama. Abitavamo tutti assieme, mio marito, mio cugino e le mie quattro figlie. Due di loro, di 11 e 13 anni, dalla nascita hanno dei problemi. Non parlano, una ha una semi paralisi, cammina ma zoppica, l’altra sa dire solo mamma e papà. Il problema è che ho sposato mio cugino e quando il sangue familiare si mischia possono succedere queste cose. La bambina più piccola ha soli due anni, non sappiamo ancora se ha dei problemi”.

Sorride. Non capisco da dove tragga tutta questa forza.

Eravamo ad Hama quando hanno iniziato a bombardare il quartiere. Le schegge hanno rotto le finestre di casa. Io ero in cucina, stavo preparando la colazione. Le mie figlie in salotto. Una è stata ferita alla gamba, l’altra al collo. La figlia più grande, di 14 anni, al braccio. Abbiamo deciso di scappare tutti assieme. Per il bene delle mie figlie, solo per quello. Altrimenti saremmo rimasti lì. A Dar’a non hanno ricevuto le cure mediche necessarie. E’ stata un’esperienza terribile. Mentre eravamo lì sono entrati i soldati, hanno minacciato i feriti, i medici si son gettati a terra. Ci son stati scontri tra l’esercito libero e le truppe di Assad. Ci son stati morti e feriti. Siamo scappati, prima in bus e poi a piedi per la frontiera, grazie all’esercito libero. Arrivati in Giordania mio marito e due delle mie figlie sono andati subito al campo di Za’atari mentre io sono andata in ambulanza con le mie figlie ferite. Dopo 12 giorni ci siamo riuniti qui, finalmente. Ora stanno meglio anche se hanno bisogno di cure mediche giornaliere che vengono fatti negli ospedali del campo”.

Sorride di nuovo.

Le condizioni qui son dure, durissime. All’inizio eravamo stati messi in una parte del campo per i nuovi arrivati, che è lontanissima dagli ospedali. Era impossibile garantire le cure mediche alle piccole. Poi ci hanno spostato qui proprio vicino all’entrata, dove vivono i rifugiati che son qui da cinque mesi. Abbiamo l’elettricità, una piccola stufetta, una televisione che abbiamo comprato qui e hanno costruito davanti alla tenda una piccola baracca che usiamo per fare la doccia alle bambine. La nostra unica speranza è di tornare in Siria appena possibile. Qui la nostra più grande paura è di prender fuoco. Queste tende, le coperte, i materassi sono altamente infiammabili. Puro nylon. Ci son stati molti casi nel campo. Basta una scintilla e tutto brucia velocemente. Circa venti giorni fa una bambina di soli due anni è morta perchè la tenda dei vicini ha preso fuoco. Era notte e lei stava dormendo avvolta nella coperta. Non c’è stato nulla da fare. Qui abbiamo tanta paura. Paura di morire soffocati”.

*pseudonimo

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