REDAZIONE 1 FEBBRAIO 2014
Norman Finkelstein – 31 gennaio 2014
Un Finkelstein emarginato parla della sua attività di scrittore, del fatto di essere non assumibile e di Noam Chomsky
Non sono molti gli accademici che negli Stati Uniti sono tanto denigrati quanto Norman Finkelstein. Un tempo leone della sinistra che teneva conferenze in tutto il mondo, studioso autore di quasi una dozzina di libri sul conflitto israelo-palestinese, oggi è una figura umile, rassegnata ai margini del dibattito pubblico. Avendo perso sia la sua posizione nel mondo accademico sia, più recentemente, i suoi sostenitori in seno al movimento di solidarietà con la Palestina, la sua carriera è fortemente declinata.
Parlando con lui mi ha colpito come uomo dai profondi principi. L’attivista e autore controverso preferirebbe affrontare la completa emarginazione piuttosto che rinunciare alle sue convinzioni. Il tono della sua voce, tuttavia, ha rivelato il costo di tale convinzione e il pedaggio che hanno preteso da lui questi ultimi anni. Nella nostra conversazione abbiamo parlato della sua attività di scrittore e del ruolo degli studiosi nella nostra società. E’ stato anche rimarchevolmente sincero riguardo alla sua disoccupazione, all’amarezza per aver perso il suo posto di docente e alla possibilità di insegnare in Iran o in Turchia. Alla fine ha offerto le sue riflessioni sul suo vecchio amico Noam Chomsky.
Quella che segue è una versione riveduta di parti della nostra conversazione.
Che cosa sta leggendo adesso?
Prevalentemente sul movimento per i diritti civili. Ho letto i primi due volumi della biografia di Martin Luther King Jr. a cura di Taylor Branch, in tre volumi, che è realmente un affresco del movimento per i diritti civili. E adesso sto leggendo Bearing the Cross[Portando la croce] di David Garrow, che è una biografia di King e quando l’avrò mi dedicherò a leggere il terzo volume della trilogia di Taylor Branch.
Le è stata attribuita la qualifica di studioso forense. Tutti i suoi libri sono frutto di ricerche esaustive e accentuano la documentazione fattuale. Lei ha recentemente commentato: “Sono uno che guarda ai dettagli e a padroneggiare i dettagli.” Esiste ancora un pubblico per questo genere di scrittura in questa era di Twitter?
No. I miei libri non vendono più. Ci sono molte ragioni per cui non vendono ma una delle ragioni è che la gente non legge più. Scordiamoci dei lettori di libri dettagliati; non si leggono per nulla. Qualcuno mi ha detto ieri che dovrei scrivere un libro sull’industria della Palestina, perché così tanti stanno sfruttando la lotta palestinese per far carriera e io ho detto: “Scrivere una libro?” Oggi si scrivono SMS, tre tweet e un commento su Facebook.
Lei ha detto uno volta di non essere un buon scrittore e che non le interessa esserlo. Peggio ancora, lei disprezza i buoni scrittori non qualificati per scrivere di politica. Gli scrittori sono più interessati a ingegnosi giri di parole che al contenuto. Lei considera il suo stile più utilitaristico, semplicemente un mezzo per trasmettere le sue tesi, o c’è spazio per lo stile e la creatività?
Sì, c’è decisamente spazio per lo stile e la creatività; per i buoni scrittori è decisamente un vantaggio possederli. Il problema è quando – forse potrà apparire supponente – ma è quando i laureati in lettere decidono che vogliono fare politica e non hanno alcuna formazione nel campo dell’inchiesta e questo è molto comune. C’è una tradizione di sinistra al riguardo e ha radici profonde ma il prototipo più evidente è stato Trotskij che per parte della giornata era un rivoluzionario e come fece notoriamente, quando si trovò su un treno blindato recandosi al fronte a scatenare la guerra civile in Russia, scriveva critica letteraria. E Trotskij era sia un brillante analista politico e un brillante critico letterario. Era per caso una combinazione di entrambe le cose.
Ma la maggior parte delle persone non lo è e quelle che abbiamo oggi sono versioni di George Packer, di Paul Berman. C’è semplicemente un gran numero di persone che non sanno nulla di politica, che non ritengono neppure importante occuparsi delle ricerche. Le sostituiscono semplicemente con il bello stile. Il principale esemplare di ciò in tempi recenti è stato Christopher Hitchens che davvero non aveva idea di che cosa stesse parlando. Ma quello che faceva era venirsene fuori con un paio di fatti misteriosi e con quei due fatti misteriosi tesseva un lungo saggio. Così la gente diceva: “Oh, guarda un po’ questo!”. Reagiva meravigliata a uno o l’altro dei pezzi sui misteri e lo prendeva per uno bene informato.
Sfortunatamente alla gente il contenuto non interessa molto. Le interessa la bravura. E’ su quella base che la New York Times Review of Books recluta i suoi autori; si deve essere, come dicono lì, dei bravi scrittori. E lo stesso vale per il The New Yorker. Ora, è naturalmente un gran pregio essere bravi scrittori, ma non quando ciò sostituisce il contenuto. Se devo scegliere tra la prosa disperata, austera di un Noam Chomsky e la prosa brillante di un Paul Berman, beh, penso che non si tratti di una scelta difficile.
Da tale punto di vista ha mai avuto dei rimpianti? Da studioso che ha scritto dieci libri e numerosi articoli ha mai desiderato di aver dedicato più tempo a leggere letteratura e come ciò avrebbe potuto influenzare il suo lavoro?
Mi dispiace molto di non aver letto più letteratura dopo l’università perché certamente avrebbe migliorato la mia comprensione della lingua inglese e anche perché la letteratura è illuminante e ti trasforma in una persona colta, raffinata; è semplicemente un dato di fatto. Dunque non soltanto per motivi utilitaristici; sarebbe stato vantaggiose per me anche dal punto di vista umano. Per inciso, magari non sarà una gran difesa, ma alcuni pensano che io sia un bravo scrittore.
Sto solo citando lei; non sto condividendo quel giudizio.
(Ride). D’accordo.
Passando a un argomento leggermente diverso: sono sette anni da quando lei ha avuto una docenza a tempo pieno all’università. Aveva un rapporto molto esile con l’accademia e al riguardo la paragonerei a figure come W.E.B. Du Bois e Anna Julia Cooper che cercarono istituzioni alternative per praticare la loro politica. Può descrivere il suo ruolo oggi da esterno, sia all’accademia sia ai media prevalenti, nel rapportarsi con il pubblico, nell’esprimere le sue idee mediante scritti, discorsi pubblici, media sociali, ecc.?
Beh, innanzitutto non insegnavo per praticare la mia politica. La mia politica era rigorosamente separata dal mio insegnamento. Non penso che un insegnante debba praticare la sua politica. In politica si vuole convincere; nell’insegnamento si vuole incoraggiare le persone a pensare. E sono due cose molto diverse. Nella mia esperienza e secondo la mia opinione sono due modi di operare molto diversi. Mi piaceva fare l’avvocato del diavolo in aula. Molto spesso, in realtà si può dire quasi sempre, gli altri non avevano idea di quale fosse il mio punto di vista su una particolare questione. Molto frequentemente gli studenti venivano da me, durante il mio orario d’ufficio, e chiedevano: “Ma che cosa pensa della particolare questione che stiamo discutendo in aula?” Ed io insistevo sempre che non era importante quello che pensavo io; la questione era quello che pensavano loro, cioè gli studenti. Dunque non praticavo la mia politica in aula.
Ero un insegnante e per me è stata un’enorme perdita; resta un’enorme perdita per me. Francamente, è fonte di delusione e di amarezza personali e private e non sono stato particolarmente produttivo negli ultimi sette anni. Perché quando si arriva alla mia età la maggior parte delle persone – ci sono eccezioni, il professor Chomsky tra esse – non si ha la stessa capacità di concentrazione mentale che si aveva a vent’anni. E così il mio insegnamento era di complemento alla mia ricerca e al mio scrivere e anche al mio lavoro politico. Era complementare nel senso che mi riempiva l’intera giornata. Oggi posso leggere, diciamo, per quattro ore il giorno, che è davvero più o meno tutto quello che sono in grado ormai di fare. Ero solito leggere agevolmente otto, a volte undici ore il giorno senza problemi. [In passato] leggevo per quattro ore mentre il resto del giorno era impegnato nell’insegnamento. E l’ho perso, il che significa che metà della mia produttività adesso è svanita.
Penso che la mia domanda più generale sia se esista un ruolo per gli studiosi fuori dall’accademia.
Il problema è guadagnarsi da vivere. Quello è il problema. Non c’è più movimento, non c’è più sostentamento materiale se non si appartiene all’accademia. Ma ci sono persone magnifiche che nel corso della mia vita sono vissute fuori dell’accademia e hanno offerto grandi contributi. Paul Sweezy, che lasciò Harvard quando era economista e divenne direttore della Monthly Review. Occasionalmente insegnava da aggiunto ma la sua intera vita è stata in realtà fuori dall’accademia. Sì, c’era uno spazio, ma oggi è semplicemente molto difficile perché esattamente cosa puoi fare per mantenerti se non guadagni abbastanza scrivendo? E c’è chi è in grado di fare dei bei soldi scrivendo, ma sono davvero pochi oggi.
Se la mia domanda non è importuna: al momento lei ha un posto di lavoro?
Non dico più che sono disoccupato; dico che non sono occupabile; è diverso. Un disoccupato dà l’idea che a un certo punto in futuro potrà trovare un’occupazione. Con me non è così. Io sono non occupabile e sfortunatamente è uno dei problemi della rete, in particolare di Google. Quando ero più giovane, si presentava domanda per un posto e solitamente erano richieste tre referenze. Oggi non si chiedono referenze. Fanno semplicemente una ricerca con Google sul tuo nome. E se si cerca il mio nome su Google vien fuori ogni sorta di cose orribili: negatore dell’Olocausto, apologeta del nazismo, sostenitore del terrorismo. E nessun amministratore responsabile di nessun settore, per non parlare dell’accademia, letteralmente nemmeno presso l’ufficio postale – è lo dico letteralmente, non metaforicamente – nemmeno per un posto all’ufficio postale sei preso in considerazione.
Ha preso in considerazione un posto da docente fuori dagli Stati Uniti, dove il clima politico potrebbe essere diverso?
Quest’anno sto decidendo su due paesi. Uno è la Turchia, dove potrei insegnare; c’è una buona possibilità. L’altro è l’Iran e mi sono dato da fare con l’Iran ma sinora non ho avuto successo. Dunque oggi si tratta di Turchia e di Iran, perché trovo intollerabile nel momento presente questa vita sprecata.
D’accordo; passando ad altro: lei ha citato in numerose occasioni di essere cresciuto in una famiglia di sopravvissuti all’Olocausto ma che i suoi genitori non condivisero mai con lei le loro tormentose esperienze. Fu solo che averne letto in libri, all’età di tredici anni, che lei cominciò a capire attraverso che cosa dovevano essere passati. Avvicinandosi ai sessant’anni, la sua intera carriera è stata plasmata dal conflitto israelo-palestinese. Dopo decenni di diplomazia e innumerevoli morti alla fine ci sarà un momento in cui il conflitto finirà. Tra un secolo da oggi, uno studente palestinese troverà uno dei suoi libri nella sua libreria e apprenderà la propria storia, in gran parte come fece lei. Che cosa prova al riguardo?
Beh, non voglio darmi all’autocommiserazione, ma non penso che succederà, quello che lei dice. Innanzitutto perché non penso che ci saranno librerie tra un secolo. In secondo luogo, perché se ci fossero librerie, come dato strettamente di fatto, ed io so che la sua domanda ha un significato più vasto, ma per il momento mi atterrò ai fatti, i miei libri non sono più ordinati dalle librerie. E poiché non sono in grado di pubblicare presso un editore affermato, sono tossico. Così pubblico presso piccoli editori, piccolissimi come OR Books, il mio editore attuale. E i budget delle librerie sono stati drasticamente ridotti. E’ questa la differenza rispetto al passato. Anche le librerie di medio livello avevano una politica di ampie acquisizioni. Ordinavano quasi ogni cosa. C’è stato un tempo in cui le cose andavano così, ma è finito. Così, come dato di fatto, non penso che lo scenario futuro che lei ipotizza si realizzerà come lei suggerisce. Ma come domanda ipotetica, sì, è una bella sensazione sapere ciò.
Nel diciannovesimo secolo ci sono stati alcuni autori che hanno raccontato la verità sui nativi americani. Ce ne fu una in particolare, Helen Hunt Jackson [che scrisse] un libro forte su ciò che era stato fatto alla popolazione nativa, intitolato A Century of Dishonor [Un secolo di disonore]. Theodore Roosevelt odiava quel libro e sua storia in molti volumi, intitolata The Winning of the West, [La conquista dell’Ovest], dedica molte pagine ad attaccare Helen Hunt Jackson. Ed è un onore per lei quando si va in una libreria, si prende quel libro dallo scaffale e si dice, beh, si sa cosa, la tesi che è stata sempre sostenuta, all’epoca non la sapevano più lunga, la tesi che “erano i tempi”, e ci si rende conto che è un sacco di merda. Salvo che quelli che volevano sapere, sapevano. E ci furono persone, a loro onore eterno, che raccontarono la verità. Persone come Helen Hunt Jackson.
In questa intervista lei ha citato alcune volte il professor Chomsky, un uomo che intendo intervistare in futuro. So che è suo buon amico da molti anni. Che cosa ammira di più in lui?
Tutti ammirano la sua genialità, ma ciò è normale. E, anche, è una questione di fortuna: Dio è stato generoso con lui quando per quel che riguarda la sua capacità mentale. Anche se la capacità mentale è soltanto, secondo l’espressione famosa di Thomas Edison e che si applica appieno al professor Chomsky: “Uno per cento ispirazione e novantanove per cento traspirazione”. Il professor Chomsky è una macchina di moto perpetuo. E’ un lavoratore infaticabile. Ma non è questo che ammiro di più in lui; quella, come ho detto, è disciplina, che naturalmente rispetto, e un dono del destino, che è fortuna.
La cosa che ammiro di più nel professor Chomsky è che è una persona assolutamente fedele, non ti tradirà mai. E’ costituzionalmente incapace di tradimento. Al punto che difenderà gli amici anche se pensa che si stiano sbagliando; ma non ti tradirà. E ha un senso della responsabilità morale da togliere letteralmente il fiato. Mi mancano le parole, perché è davvero difficile immaginare quante persone ho incontrato in vita mia che hanno detto “leggere Chomsky mi ha cambiato la vita”. Mi mancano le parole, è la più incredibile testimonianza a un singolo essere umano, quante vite, compresa quella del sottoscritto, sono state decisamente cambiate per effetto della sua prosa. E’ stupefacente. Ci sono legioni di persone nel mondo le cui vite sono state letteralmente capovolte per averlo letto.
Ho parlato a un raduno nel Kerala, in India. E’ stato circa sei mesi fa ed era un raduno enorme, c’erano circa 60.000 persone. Era la classe inferiore; era una manifestazione di un’organizzazione progressista mussulmana. L’unico nome riconoscibile di qualcuno dell’occidente per i presenti, a parte naturalmente Obama per ragioni negative, il solo nome riconoscibile per quella gente comune del Kerala era Noam Chomsky. L’organizzatore della manifestazione era una persona assolutamente splendida, di nome Shahin, una persona davvero devota, impegnata, retta. “Voglio visitare gli Stati Uniti; ho cercato molte volte ma non vogliono darmi il visto. Voglio andarci per un solo motivo. Voglio andare a Boston a stringere la mano a Noam Chosmky”. E’ una testimonianza davvero incredibile resa a un singolo essere umano. Dallo stato del Kerala, in India, questo organizzatore, questa persona molto intelligente e impegnata, ha un unico scopo per venire negli Stati Uniti. Non i lustrini, non le decorazioni, non Times Square, non Disney World, non la Statua della Libertà. Uno scopo e uno scopo soltanto: stringere la mano a Noam Chomsky. E questo è l’impatto che ha avuto su legioni di persone nel mondo, me compreso.
Qualche sera fa qualcuno ha detto … ero in giro con un collega mussulmano pakistano, di nome Ali Qureshi. Lui, come molti altri, ha detto, ed è vero, che quando Chomsky lascerà la scena, sarà una perdita enorme. Non solo la perdita in termini di capacità mentale, ma io penso che la perdita maggiore sarà che per un’intera generazione Chomsky è stato la bussola morale. Non è cosa da poco.
Riguardo a questioni complesse, che si tratti di cose come la Libia o il Kosovo o di una quantità di altri problemi, la gente non ha tempo di indagare una questione a fondo; guarda al professor Chomsky perché fornisca il giudizio morale. Che cosa dovremmo fare, da quale parte dovremmo schierarci. Ha svolto quel ruolo e dobbiamo essere chiari sul fatto che le sue risposte non sono mai state ovvie. Su una questione politica le sue risposte non sono mai state facilmente prevedibili. Per quanto riguarda i giudizi morali in generale, sì, si sa da che parte sta. Ma dovremmo appoggiare un intervento straniero in Libia, dovremmo appoggiare un intervento NATO in Kosovo, oggi da che parte dovremmo schierarci a proposito della Siria?
Possono essere domande molto complicate e la cosiddetta sinistra può essere fortemente divisa. Ma per la base più ampia di quella che è definita la sinistra, il modo in cui decideva la sua posizione è consistita nel guardare a Chomsky, perché si è fidata del suo giudizio morale e politico. E una volta che avrà lasciato la scena, quel fattore unificante scomparirà. Penso che la cosiddetta sinistra finirà anche più frammentata di quando sia ora, perché il professor Chomsky ha fatto da fattore unificante per un vasto segmento della sinistra; le persone si rimettevano semplicemente al suo giudizio.
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Originale: Urban Times
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2014 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
Intervista a Norman Finkelstein
http://znetitaly.altervista.org/art/14039
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