Intifada della benzina, o altro?

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admin | September 11th, 2012 – 2:15 pm

http://invisiblearabs.com/?p=4876

Stamattina la protesta per le strade delle cittadine palestinesi era arrivata a Jenin, al campo profughi. È il tam tam su twitter a fornire le coordinate geografiche di una protesta che non è solo sociale, come tutte le proteste che si sono dispiegate negli ultimi due anni nel mondo arabo. I palestinesi (in gran parte giovani, ma non solo) protestano per il carovita, come in fondo era successo agli israeliani nelle manifestazioni e nei sit-in simboleggiati dal campo di viale Rotschild a Tel Aviv. I palestinesi protestano, però, contro il tipo di struttura economica nella quale sono costretti a vivere sin dai tempi degli accordi di Oslo. Un’economia sotto tutela, definita dai protocolli di Parigi. Un’economia – per questo motivo – bloccata dallo statusquo, come spiega benissimo su Haaretz Amira Hass: il processo di pace di Oslo è considerato, da tutti i protagonisti, morto e sepolto, dal punto di vista politico, ma la struttura stessa dell’economia non è stata toccata. La produzione, gli approvvigionamenti, le materie prime sono soggetti all’occupazione israeliana, e Israele – in Cisgiordania – trova anche un mercato per i propri prodotti.

Un esempio tra tutti, proprio quello sul quale si concentrano – ma solo simbolicamente, a mio parere – le proteste in corso in questi giorni: ai palestinesi non è consentito cercare l’approvvigionamento energetico là dove lo possono trovare a un prezzo conveniente. Non possono, in sostanza, importare carburante dall’Egitto, dall’Iraq, da un paese arabo qualsiasi. È solo Israele l’esportatore. Le bollette dell’elettricità le pagano a Israele. La benzina costa(va) leggermente di meno, alla pompa, rispetto a quanto la pagano gli israeliani, motivo per il quale gli israeliani fanno benzina in Cisgiordania (i coloni) o sull’autostrada 443 che corre all’interno dei territori palestinesi occupati. Ma la benzina costa sempre tanto, tantissimo, per il salario medio palestinese, di molto inferiore a quello israeliano.

Normale, dunque, che a scendere in piazza siano stati tassisti e trasportatori, ieri. Il carovita, la crisi economica sempre più stringente sono solo i motivi scatenanti di una protesta che non può essere considerata slegata da quello che è successo e succede negli altri paesi arabi. Persino gli slogan sono gli stessi. Mi raccontavano i miei amici di Betlemme che ieri, in strada, a poca distanza dalla Natività, si udiva irhal, irhal, ya Abbas. ‘Vattene, vattene, Abbas’, usando lo stesso verbo usato nel febbraio del 2011 a piazza Tahrir, il giorno prima delle dimissioni di Hosni Mubarak. A Hebron, nella palestinese Khalil, lo slogan era al shab yurid iskat al nizam, ‘il popolo pretende che cada il regime’, mentre su un poster raffigurante il premier Salam Fayyad venivano lanciate le scarpe, segno di grande offesa.

La reazione dell’ANP è preoccupata, a quanto sembra dalle prime indicazioni. La conferenza stampa di Salam Fayyad, oggi, mirava più a calmare le acque che a risolvere i problemi. Il calo del prezzo dei carburanti non può essere considerata una ricetta economica. Può solo servire a liberare le strade da una protesta che, iconicamente, ricorda le intifada, le rivolte. Il fumo dei copertoni bruciati, i ragazzi (quasi tutti maschi) per le strade, jeans e maglietta… I malanni economici palestinesi, però, sono altri, e non si concentrano sulle pompe di benzina.

Lo ha detto, a suo modo, lo stratega di Hamas, Moussa Abu Marzouq, intervistato l’8 settembre da maannews. E le sue dichiarazioni sono di estremo interesse per gli analisti, perché mettono sul piatto sia il rapporto tra l’ANP e Israele in Cisgiordania, sia il futuro delle relazioni tra Hamas e Fatah, le due fazioni più importanti del quadro politico palestinese. Abu Marzouq parlava dal Cairo, dove le ultime indiscrezioni parlano dell’apertura di un ufficio di Hamas in Egitto, e parlava in un momento ben preciso nella storia del movimento islamista, dopo i cambiamenti nel governo di Ismail Haniyeh a Gaza, che indicano quanto il confronto interno alla dirigenza di Hamas sia tuttora in corso.

Speaking by telephone late Friday, the deputy chief of Hamas’ politburo said President Mahmoud Abbas “should take a courageous decision before it’s too late. The Palestinian Authority was meant to become an independent entity, but the opposite happened.”

Abu Marzouq expressed concern that “someone could target the president just as what happened with late Palestinian president Abu Ammar (Yasser Arafat) because Israel has recently described him as needless.”

 (…)

Trying to explain the deterioration in the West Bank, Abu Marzouq said when the Israelis addressed peace, they reduced it to “economic peace” while Salam Fayyad was talking about economic development.

“The Palestinian people’s main problem isn’t economic. They are under occupation deprived of sovereignty and freedom. They can’t freely make economic decisions, and neither Fayyad nor any other person can take decisions independently without the intervention of occupation. Thus, the remedy lies basically in how to get rid of occupation.”

“I wish President Abbas would face the problem as a whole. For 20 years, we have been addressing something here and something there, but without addressing the political path we have chosen and now we are reaping its results. The problem lies in Abu Mazen’s political path which needs to be reconsidered in light of Israel’s rejection to all proposals.

È – insomma – una protesta politica, questa, figlia di un disagio che dura da molti anni, rispetto alla transizione del post-Arafat. Disagio verso l’Autorità Nazionale Palestinese che non ha saputo fornire risposte adeguate alla necessità di nuove ricette politiche. La  stessa frattura tra Cisgiordania e Gaza, tra Fatah e Hamas si riverbera sulle strade della Cisgiordania, con segnali diversi a seconda dei luoghi. A  Hebron, roccaforte di Hamas in Cisgiordania, dove ieri si sono contati 80 feriti, molti testimoni parlano – per esempio – della presenza, tra le file dei dimostranti, di uomini dei servizi di sicurezza dell’ANP, provocatori che avrebbero cercato di trasformare la protesta pacifica in protesta violenta, così da scatenare e giustificare la reazione delle forze dell’ordine. Se così fosse, se qualcuno nella sicurezza dell’ANP avesse deciso di usare gli stessi mezzi usati contro i ragazzi di Piazza Tahrir, questo mostrerebbe la fragilità della stessa struttura istituzionale palestinese.

Wait and see, aspettiamo di vedere cosa succederà nei giorni prossimi. Se la protesta evolverà in una intifada contro Abbas e Fayyad, in una rivolta contro le costrizioni delle principali fazioni politiche palestinesi, oppure in una terza intifada contro l’occupazione israeliana. A giudicare dai discorsi che ho ascoltato negli ultimi anni e negli ultimi mesi, la rivolta è contro i propri leader perché non danno risposte chiare, nette e attuali contro la situazione interna, e dunque contro l’occupazione. Se Oslo è morta, nella società palestinese e in quella israeliana si sta già pensando ad altro. Le menti più brillanti si stanno già esercitando per trovare soluzioni al conflitto più interessanti di un processo di pace ormai inesistente da anni.

C’è una immagine che più di tutte quelle che ho visto immortala una situazione confusa e nuova. È una immagine di bandiere, ancora una vota. E chi ha letto il mio libro su Hamas, soprattutto nelle sue due versioni in inglese, sa che per me le bandiere sono simbolo dell’evoluzione politica palestinese. Ero a Gerusalemme, negli scorsi giorni, per dire arrivederci ai miei amici, alle persone care con cui ho condiviso oltre nove anni di vita quotidiana, prima di iniziare una nuova avventura. A Salaheddin street ho sentito lo strombazzare tipico dei cortei nuziali. Sono uscita dal negozio in cui mi trovavo, e ho visto passare una macchina piena di ragazzi che tenevano nelle mani delle bandiere: di Fatah e di Hamas. Assieme, nella stessa macchina. Anzi, nelle stesse macchine. A chiudere il piccolo corteo, un’altra automobile. Dai finestrini si sporgevano con tutto il loro corpo quattro ragazzi che tenevano saldamente nelle mani una enorme bandiera palestinese, lunga quanto tutto il veicolo. Una enorme bandiera palestinese nel cuore di Gerusalemme est, là dove è proibito issarla, persino in versione minuscola. Una sfida alle autorità israeliane, da un lato. E dall’altro l’affermazione che, almeno tra quei ragazzi, la frattura tra le fazioni è divenuta anacronistica. C’è ben altro in ballo, ora.

La prima foto è stata scattata a Nablus, la seconda a Hebron. Via Twitter.

Il brano della playlist, Riders on the Storm, classico dei Doors, è nella versione di Snoop Dogg. Meglio la versione originale, certo, ma questo mix è divertente.

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