martedì 19 giugno 2012 07:20
Lunedì il primo volo per rimpatriare 120 migranti entrati illegalmente in Israele. La caccia allo straniero è iniziata ma c’è chi si preoccupa dell’immagine di Israele all’estero.
Luca Salerno
Beit Sahour (Cisgiordania), 19 Giugno 2012 – Nena News – “Il problema degli infiltrati deve essere risolto e lo risolveremo”. Così parlava il primo ministro Benjamin Netanyahu dopo gli scontri di alcune settimane fa nella periferia sud di Tel Aviv. Dalle parole si è passati ai fatti. Nella notte tra domenica e lunedì le autorità israeliane hanno iniziato l’espulsione dei cittadini provenienti dal Sud Sudan. Circa 120 migranti, tra i quali 43 bambini, hanno “volontariamente” lasciato il paese per tornare nella loro terra d’origine. Ad ogni immigrato è stato dato un contributo di 1300 dollari (500 per i bambini) con la promessa di non fare più ritorno nello stato ebraico. Alle operazioni di rimpatrio era presente anche una delegazione del governo del Sud Sudan che non ha avuto alcuna rimostranza rispetto al comportamento di Israele.
Come dichiarato dal ministro dell’interno Alison Manani Magaya: “E’ il loro paese, se non vogliono stranieri lì, allora (gli stranieri, ndr) devono tornare a casa”. “Possono venire a stare con i loro parenti – ha continuato – Erano lì (in Israele) a causa della guerra (civile sudanese). Adesso la guerra è finita”.
Le buone relazioni tra i due paesi (Israele è stato tra i primi paesi a riconoscere il Sud Sudan) sono confermate anche dal fatto il paese africano stabilirà la propria ambasciata a Gerusalemme e non a Tel Aviv, diventando di fatto il primo paese a riconoscere Gerusalemme come capitale unica ed indivisibile dello stato ebraico.
L’inizio delle operazioni di rimpatrio è stato possibile grazie ad una sentenza della Corte israeliana che la settimana scorsa ha dichiarato legittima l’espulsione di cittadini provenienti dal Sud Sudan. Da quel momento ha preso il via l’operazione “Going Home”, controlli a tappeto di squadre speciali della polizia alla ricerca degli “infiltrati”, che ha portato all’arresto di oltre 200 persone. “Alle persone fermate per strada viene detto che se non firmano il documento, non saranno autorizzati a raccogliere le loro cose e rimarranno in custodia (fino all’espulsione, ndr) – ha dichiarato l’attivista per i diritti dei migranti Rami Gudovitch al quotidiano israeliano Haaretz – Quindi ho i miei dubbi su quanti stanno lasciando il paese di spontanea volontà”. Ed infatti i dubbi di Rami Gudovitch vengono confermati dai racconti dei rifugiati rimpatriati che affermano di aver subito enormi pressioni per accettare di lasciare il paese.
Il risultato è che i migranti cercano di nascondersi e non farsi vedere per strada. Il Levinsky Park, nel sud di Tel Aviv, ad esempio, era il luogo di ritrovo dei rifugiati e richiedenti asilo, ora è quasi deserto. Con l’intensificarsi dei controlli molti rifugiati hanno anche perso quei piccoli lavori che gli garantivano i soldi necessari per la sopravvivenza. La maggior parte dei datori di lavoro ha infatti deciso di licenziare o non assumere i migranti spaventati dalla nuova legge d’ingresso, secondo la quale se un Israeliano viene scoperto ad aiutare o a dare lavoro ad un rifugiato può andare incontro ad una pena fino a 5 anni di carcere ed una multa fino ad un milione di di dollari.
Il problema è che non esiste un sistema ufficiale per il riconoscimento dei richiedenti asilo in Israele. Il processo di immigrazione israeliano si basa fondamentalmente su due leggi, il diritto al ritorno per tutti gli ebrei nella terra di Israele, e la legge di ingresso, che dà potere al ministero degli interni a decidere in maniera ad hoc chi può entrare e in quali termini. “Dovendo scegliere tra l’essere chiamato ‘un liberale illuminato’ senza Stato ebraico e sionista, ed essere chiamato un ‘razzista ottenebrato’, ma un cittadino orgoglioso, io scelgo la seconda,”- Eli Yishai, ministro degli interni di Israele -“L’era degli slogan è finita, l’era di azione è cominciata”. Yishai sa benissimo che però il governo, attualmente, può rimpatriare solo i migranti provenienti dal Sud Sudan dato che Israele non ha relazioni diplomatiche con il Sudan e non riesce a trovare un accordo con il governo dell’Eritrea sul rimpatrio dei rifugiati. Ciò significa che decine di migliaia di africani languono illegalmente in Israele. La maggior parte dei quali senza permesso di lavoro.
Secondo alcune stime i rifugiati del Sud Sudan sono tra le 700 e le 1200 unità, un numero irrisorio rispetto ai 60 mila rifugiati in Israele. Sembra probabile quindi che il governo israeliano voglia dare l’impressione di un inizio di politica di espulsione di massa, per disincentivare l’arrivo di nuovi rifugiati e creare timore tra la popolazione immigrata.
Questa politica però ha anche avuto l’effetto di esacerbare ulteriormente la tensione, già oltre i livelli di guardia dopo i ripetuti episodi di violenza delle scorse settimane. Ora i migranti hanno paura e sono diventati target di offese ed aggressioni quotidiane, l’ultima delle quali in un ristorante eritreo nel quartiere di HaTikva (sud di Tel Aviv) che ha causato il ferimento di uno dei clienti. L’aumento degli episodi di violenza, insieme alle continue dichiarazioni razziste dei Ministri e dei deputati della Knesset (pochi giorni fa il ministro degli interni dichiarava che “Israele appartiene all’uomo bianco”, dimenticando le sue origini tunisine) stanno preoccupando il ministro degli esteri israeliano. I suoi funzionari si lamentano, infatti, che le dichiarazioni di Eli Yishai, Danon, Regev stanno causando “danni irreparabili” per l’immagine pubblica di Israele negli Stati Uniti. Per la prima volta, i media americani hanno usato il termine “disordini razziali” per descrivere ciò che accade nel sud di Tel Aviv. L’immagine di Israele, si lamentano i diplomatici, ha subito un duro colpo specialmente nella comunità nera e tra i liberali americani. Ma ovviamente il problema di queste dichiarazioni è nella forma non nella sostanza (sic!). Nena News.
http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=23883&typeb=0
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