L’aeroporto Ben Gurion (Tel Aviv)
Thursday, 23 June 2011 08:46 Marta Fortunato per l’Alternative Information Center
Oggi, giovedì 23 giugno, è l’ultimo giorno della kermesse israeliana dal titolo “Israele che non ti aspetti” che si è svolta a Milano per promuovere, secondo le parole degli organizzatori, “scambi scientifici e culturali tra Tel Aviv e Milano”
e per raccontare “un Israele diverso da quello interessato da un conflitto”. La rassegna “Unexpected Israel” ha coperto diversi settori, l’economia del turismo, la cultura, i new media, fino ad arrivare alle ultime conquiste nel campo della tecnologia e della sicurezza interna. Tecnologia che ho potuto sperimentare in prima persona all’aeroporto di Tel Aviv, poco più di una settimana fa.
“What did you do in IsRael?” mi chiede un agente della compagnia di sicurezza dell’aeroporto, ancora prima di arrivare al Ben Gurion con la tipica erre moscia israeliana. “Sono una pellegrina, sono stata a Gerusalemme per tutto il periodo della quaresima e poi, dopo Pasqua, ho viaggiato in Israele”.
Racconto che di sicuro non convince i soldati e gli addetti alla sicurezza i quali mi allontanano subito dalla coda di persone in attesa del check-in e mi interrogano. Certo non posso dire che sono una volontaria attivista nell’Alternative Information Center, che scrivo articoli per denunciare l’occupazione e le terribili pratiche israeliane. Ma due ragazze giovani che sono state tre mesi in Israele non possono che essere sospette, molto sospette. Anche se fingono di essere pellegrine, anche se si sono preparate un alibi valido, anche se hanno cancellato ogni prova del loro lavoro in Palestina: nessun numero “sospetto” nel cellulare , nessun file “pericoloso” nel computer . Hanno persino un Vangelo nello zaino, cartoline della Chiesa della Natività e un santino.
La ragazza addetta alla sicurezza mi separa dalla mia amica e inizia a farmi una serie infinita di domande: dove sono stata, cos’ho visitato, chi mi ha pagato il biglietto, cosa faccio nella vita, quanti soldi hanno i miei genitori, dove ho conosciuto la mia amica, con chi sono venuta a contatto durante il viaggio, fino alle domande più strane: “Hai armi con te?”. No. “Hai una Bibbia?”. Alla mia risposta positiva, mi chiede di mostrargliela, assieme ad alcune foto sulla mia macchina fotografica.
Attesa. Senza motivo, solo per il gusto di farci aspettare. Attaccano ai nostri bagagli un’etichetta gialla con un codice che inizia con il 6. Il famoso indice di pericolosità che va dall’1 al 7. Siamo abbastanza pericolose.
Etichetta che indica la pericolosità dei passeggeri in uscita dall’aeroporto Ben Gurion (Tel Aviv)
Vengono a prendermi, mi portano in uno stanzino blindato, e da lì in un piccolo camerino dove mi chiedono di togliermi le scarpe e la giacca. Mi perquisiscono, a lungo, controllano che non abbia esplosivo, che nel reggiseno, nella cintura dei pantaloni o sotto la pianta del piede non sia nascosto qualcosa. Aspetto che le scarpe vengano analizzate attraverso il metal detector.
Non riesco a capire se tutto questo viene fatto per motivi di sicurezza, se gli impiegati siano davvero convinti di trovare possibili terroristi che vogliono farsi esplodere oppure se sia solo una procedura punitiva, pensata per tutti coloro che si sospetta “aiutino il nemico”. Di sicuro però lavorare in tale contesto deforma la realtà, condiziona il modo di vedere, pensare, percepire gli altri. Se lavorassi in un ambiente simile mi convincerei che i cosiddetti terroristi esistono veramente, che il mio lavoro ha un senso, che è giusto e necessario controllare i passeggeri per motivi di sicurezza. Diventerei pazza, come lo sono tutti gli impiegati all’interno dell’aeroporto Ben Gurion.
Mi portano di nuovo vicino al check in, scortata da tre ragazze che controllano ogni mio singolo gesto e movimento. E lì vedo che il mio zaino è stato completamente aperto, disfatto, ogni mio oggetto personale gettato in un vassoio di plastica…..carte di credito, penne, soldi, vestiti sporchi, tutto è buttato lì, assieme, in disordine. Mi sento privata della mia intimità, della mia sfera più personale, rifaccio lo zaino con rabbia, nervosismo ed odio nei confronti dei due uomini che ho di fronte a me, i quali mi obbligano a spedire il computer come bagaglio di stiva. Motivi di sicurezza. Solo per me e la mia amica, non per gli altri passeggeri.
Ci accompagnano alla dogana, e da lì torniamo ad essere libere. Con tanta rabbia ed umiliazione addosso. E questo non è niente.
A volte obbligano i passeggeri a spogliarsi nudi, li chiudono in delle stanze di perquisizione per ore, fanno perdere loro il volo e li obbligano a ricomprarne un altro.
Ma il mio pensiero è volto a tutti i palestinesi che quotidianamente subiscono umiliazioni fisiche e psicologiche da parti di soldatini diciottenni. Palestinesi il cui sogno impossibile sarebbe quello di poter prendere l’aereo da Tel Aviv, senza dover passare per la Giordania.
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