Israele e l’Olocausto

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21 SETTEMBRE 2013 – 16:42

Slow news di Ugo Tramballi

 
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Fra qualche giorno si commemorano i 40 anni  della guerra del Kippur, la “Guerra d’ottobre” per gli egiziani. Apparentemente fu il meno importante dei conflitti arabo-israeliani: trovò e lasciò come erano i territori occupati da Israele sei anni prima, nel 1967. La pace con l’Egitto e il ritiro dal Sinai che seguirono nel ’79, prima o poi ci sarebbero stati comunque. E se Golda Meir avesse ascoltato Anwar Sadat e Henry Kissinger che invocavano un negoziato sul Sinai, la guerra del Kippur non si sarebbe nemmeno combattuta.

  Eppure fu quel conflitto che determinò più di ogni altro avvenimento contemporaneo la psicologia, la postura e le strategie militari dell’intero popolo d’Israele. Il sei ottobre 1973 il Paese era stato colto di sorpresa dall’avanzata egiziana a Sud e da quella siriana a Nord. Dopo la sensazione di onnipotenza della guerra dei Sei giorni, le forze armate scoprirono di essere inadeguate. Per una settimana fu temuta la catastrofe e solo un gigantesco ponte aereo militare americano l’impedì.

  Gli israeliani decisero che non sarebbe mai più accaduto. Da quel momento i militari diventarono ancora più di prima il pilastro del Paese, le forze armate furono modernizzate, tecnologie di altissimo livello vennero introdotte: le stesse che, trasferite nel civile, avrebbero contribuito al fenomeno dell’hi-tech e delle startup.

  Israele diventò una fortezza iper-armata. Prima che nel 2003 gli Stati Uniti eliminassero le forze armate irachene, le sole ancora minacciose, era stato calcolato che per perdere la sua superiorità militare sul Mondo arabo, Israele avrebbe dovuto non investire in armamenti per 10 anni. Oggi il divario è ancora più grande.

  Ma allora, nell’ottobre del ’73, dagli incubi di ogni israeliano riemerse l’Olocausto. Evidentemente non lo avevano mai dimenticato ma il più grande massacro scientificamente premeditato della Storia, era più un fatto personale di ogni singolo israeliano che dell’intero Israele. La tendenza dei sopravvissuti e dello Stato socialista nato per forgiare il “Nuovo Ebreo”, era collettivamente dimenticare.

  La guerra del Kippur aveva posto di nuovo come eventualità la distruzione di una comunità ebraica. Nel 1977, la vittoria elettorale delle destre e di Menachem Begin trasformò l’Olocausto in un fattore politico permanente: Arafat era come Hitler, uno Stato palestinese avrebbe portato a un altro Olocausto. Quella tragedia passata rendeva giustificabile nel presente ogni comportamento politico e militare. Non ha più smesso di essere così. I nemici degli accordi di Oslo disegnarono i baffi e il ciuffo hitleriano sui ritratti di Yitzhak Rabin: sotto quelle orribili immagini il giovane Bibi Netanyahu teneva i suoi comizi violenti, istigando l’assassino di Rabin; quando Sharon ordinò il ritiro da Gaza nel 2005, i coloni lo accusarono di essere un Goebbels; è per impedire “un nuovo Olocausto” che Bibi Netanyahu vuole bombardare l’Iran.

  E, di nuovo l’anno scorso, dopo la maggioranza travolgente dell’Onu a favore di uno Stato palestinese; qualche mese fa quando l’Unione europea ha deciso di boicottare i prodotti israeliani che vengono dai Territori occupati: ogni volta che facciamo qualche cosa che Israele non gradisce, diventiamo tutti antisemiti intenti alla preparazione di un nuovo olocausto.

  Qualche tempo fa Tom Friedman del New York Times ha scritto che “Israele è Yad Vashem con un’aviazione”: Yad Vashem, a Gerusalemme accanto al monte Herzl dove riposano gli Eroi d’Israele, è il commovente memoriale dell’Olocausto. Un Paese che ama credere di essere solo al mondo, detestato, perseguitato, per giustificare una forza armata che supera di gran lunga la potenza di cui ha bisogno per garantire il suo diritto alla sicurezza: un diritto riconosciuto dalla sconfinata maggioranza del mondo e protetto dagli Stati Uniti al prezzo del loro interesse nazionale in Medio Oriente.

  L’uso politico dell’Olocausto non è un tema di cui parlo volentieri: me lo impedisce il mio senso di colpa di europeo e cristiano nato solo un decennio dopo l’Olocausto. Credo che spetti soprattutto agli ebrei parlarne. Lo faccio ora perché qualche giorno fa è stato Ha’aretz a scriverne in un editoriale molto interessante. “Oggi Israele è un’entità forte e indipendente, accettata dalla comunità internazionale”, scrive il quotidiano della sinistra israeliana. “La memoria dell’Olocausto è un dovere storico, un monumento alla brutalità umana che non deve essere dimenticato. Ma non può costituire una considerazione strategica o di sicurezza alla quale riferirsi per i capi di governo e militari. Il loro dovere è delineare la strategia israeliana, la sua diplomazia e le scelte militari, focalizzandosi sul futuro e sui bisogni del popolo che non vuole vivere prigioniero dei traumi passati”. Shalom e L’shana tovah tikatev v’taihatem, anche se con un po’ di ritardo.

 

 

Allego il commento sul disgelo fra Stati Uniti e Iran, uscito sulle pagine del Sole-24 Ore.

 

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-09-19/perche-obama-scelto-disgelo-064949.shtml?uuid=AbnAcLYI&fromSearch

 

http://ugotramballi.blog.ilsole24ore.com/slow-news/2013/09/israele-e-lolocausto.html#more

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