Israele – Palestina: uno status quo solo apparente

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admin | January 21st, 2013 – 7:31 pm

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In una situazione di stallo permanente, meglio mostrare che qualcosa – comunque – si fa. È una lettura pessimista, quella della politica del Palazzo palestinese, o per meglio dire, dei Palazzi della politica palestinesi. Le élite al potere, in Cisgiordania e a Gaza, continuano gli affari correnti, l’ordinaria amministrazione di Ramallah e Gaza City, mentre la riconciliazione tra Fatah e Hamas è diventata, per entrambi i contendenti, uno specifico settore della politica in cui impegnare uomini, risorse e tempo.

Con tono amaro, uno degli intellettuali palestinesi più acuti amava dire, qualche anno fa, che la riconciliazione era diventata “un processo”, dunque un’attività senza fine che avrebbe permanentemente occupato la burocrazia di Hamas e Fatah. Il risultato, insomma, non è centrale nella riconciliazione tra i due più importanti soggetti politici palestinesi. L’importante è il processo, il percorso, gli incontri, le commissioni, le date segnate sull’agenda e poi puntualmente rinviate.

È con questo mood, con questo sentimento di fondo che l’opinione pubblica palestinese ha accolto, tra dicembre e gennaio, le notizie sugli incontri tra Fatah e Hamas al Cairo, mediati dall’intelligence egiziana e promossi dal presidente Mohamed Morsi. Certo, qualche nota diversa dai mesi più recenti c’è stata. Anzitutto, l’incontro tra il presidente dell’Anp e di Fatah, Mahmoud Abbas, e Khaled Meshaal, ancora capo dell’ufficio politico di Hamas. I due leader non si incontravano da quasi un anno, da quel vertice di Doha mediato dallo emiro qatarino Hamad bin Khalifa al Thani che aveva suscitato – nel febbraio 2012 – molte speranze, ma che poi non si era tramutato in nessun atto concreto. Non si sono tenute né le tre elezioni messe in agenda (presidenziali, parlamentari e quelle per il rinnovo del parlamentino dell’Olp), né era stato insediato il governo tecnocratico di unità nazionale.

Il nuovo incontro del Cairo tra Abbas e Meshaal è ripartito proprio dall’accordo di Doha. Sembra senza nessun cambiamento alla lettera dell’intesa. Si ricomincia, insomma, dalla commissione elettorale che deve redigere, soprattutto a Gaza, la lista degli elettori, e dal governo tecnocratico che Abbas deve presiedere e che non deve far comparire, nella propria compagine, nessun esponente di Fatah e di Hamas. La data imposta dagli incontri in terra d’Egitto è quella del 30 gennaio. Ancora una volta, però, non è dato sapere se il 30 gennaio sarà la scadenza, e dunque la nascita del governo di unità nazionale, oppure l’inizio delle consultazioni per formare il nuovo esecutivo che dovrebbe azzerare, secondo l’intesa, i governi di Ramallah e Gaza City presieduti, rispettivamente, da Salam Fayyad e Ismail Haniyeh.

Il processo per la riconciliazione, dunque, è di nuovo in corso. Di nuovo sul binario. Ma quanto può incidere sul rapporto con Israele, sempre più rappresentata da un blocco di destra nazional-religioso, compatto almeno dal punto di vista della cultura politica? Nulla. Non cambia nulla. Lo status quo è la cifra non solo del rapporto sul terreno tra Israele, da un lato, e le due entità geografico-politiche palestinesi (Gaza e Cisgiordania), dall’altro. Benjamin Netanyahu vorrebbe continuare con lo status quo, che non è una realtà ferma e immobile, quanto piuttosto un percorso lineare e inarrestabile verso l’acquisizione di terra palestinese, l’aumento delle colonie, il consolidamento del controllo israeliano sull’intera Gerusalemme. È probabile che anche la star di queste elezioni israeliane, il Naftali Bennett espressione dei coloni, della destra nazional-religiosa ashkenazita, e di una visione non ipocrita dei propri obiettivi, voglia anche lui continuare con questo status quo in progress.

Dall’altro lato, c’è l’immobilismo dei Palazzi della politica palestinese, e c’è – allo stesso tempo – un attivismo palestinese che è l’unico, in questo periodo, a dare input sorprendenti. Almeno dal punto di vista della presa mediatica e dell’utilizzo di strumenti capaci di rompere, almeno per poche ore o pochi giorni, l’impasse. È l’attivismo palestinese che da anni crea un argine, seppur piccolo, al muro di separazione e al consolidamento delle colonie e degli outpost israeliani in Cisgiordania. È l’attivismo palestinese assurto agli onori della cronaca (almeno internazionale, molto di meno sulla stampa italiana) quando alcune centinaia di giovani, palestinesi e “internazionali”, hanno montato le tende sull’area E1, la controversa zona ai margini di Gerusalemme, verso Gerico, che Benjamin Netanyahu ha dichiarato di voler acquisire del tutto e colonizzare con migliaia di appartamenti da costruire entro breve. Il definitivo controllo da parte israeliana della E1 significherebbe la rottura definitiva della continuità territoriale tra Cisgiordania e Gerusalemme, e la altrettanto definitiva cantonalizzazione della West Bank, con una frattura tra Ramallah e Betlemme, tra centro e sud della Cisgiordania.

La nascita di Bab el Shams, l’outpost palestinese sorto dal nulla e dalla fantasia degli attivisti palestinesi, ha creato scompiglio tra gli israeliani. Prima di tutto, perché ha invertito le parti in commedia: non sono più solo gli israeliani a creare fatti sul terreno. I fatti sul terreno cominciano a farli anche i palestinesi. Poco importa se la vita di Bab el Shams sia stata brevissima, appena pochi giorni prima di un’evacuazione forzata e violenta da parte delle forze di sicurezza israeliane. Il messaggio è chiaro: non esistono solo i Palazzi della politica palestinese, esiste anche un attivismo di nicchia ma costante che è l’unico, in fondo, a perseguire in questi ultimi mesi l’obiettivo dello Stato di Palestina. Se è vero che a cavalcare il ballon d’essai dello Stato di Palestina è stato Abbas e una parte del vertice di Fatah e dell’Anp, è altrettanto vero che dal punto di vista della cultura politica è l’attivismo dei comitati popolari locali palestinesi ad avere come traguardo uno Stato di Palestina che sani la frattura creata dalle élite tradizionali.

Quanto tutto ciò si possa tradurre in una politica che abbia un seguito e un consenso molto più diffuso nella società palestinese, è tutta un’altra storia. Un elemento, però, è chiaro, in un quadro ancora confuso: le intifada precedenti sono scoppiate in una fase in cui sembrava che la demoralizzazione, la stanchezza, la frustrazione fossero al loro punto più alto, e però si sono nutrite di segnali, di una storia costante e nascosta di rabbia crescente, di una cronaca altrettanto nascosta che aveva fecondato la ribellione. La violenza a bassa intensità nella Cisgiordania, gli scontri sempre più frequenti tra palestinesi e i coloni israeliani, decisi a spingere sull’acceleratore della colonizzazione crescente almeno dell’area C della West Bank, stanno fecondando il terreno della rabbia.

Ho scritto questo commento per l’Ispi, pubblicato oggi sul sito dell’Istituto di Politica internazionale, alla vigilia delle elezioni israeliane.

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