Mercoledì 28 marzo 2012 | 972 blog
L’attivista racconta la sua esperienza: trattenuta per ore, con vessazioni e intimidazioni da parte di funzionari dell’Agenzia di sicurezza di Israele – senza aver fatto nulla di illegale o sospetto.
Di Leehee Rothschild
Sono arrivata all’aeroporto di Luton per il mio volo di ritorno in Israele, dopo aver trascorso un mese in Gran Bretagna e in Francia, partecipando alla Settimana dell’Apartheid israeliano e agli eventi BDS (Campoagna Boycott, Divestment, and Sanctions). Questo, insieme con il mio attivismo in corso per i diritti dei palestinesi, mi ha fatto diventare un rischio per la sicurezza di altissimo livello per lo stato d’Israele.
I guai sono cominciati al bancone di sicurezza israeliano prima del check-in. Ho risposto a tutte le domande correttamente: “Hai una sola valigia?” “Sì” “Il tuo bagaglio è stato con te in ogni momento?” “Sì” . L’addetto alla sicurezza non stava veramente ascoltando, stava controllando invece le sue liste. Un funzionario della sicurezza di grado più elevato è stato chiamato sul posto, il mio passaporto è stato portato via. Questa persona sembrava affascinato dalla mia permanenza all’estero, e chiedeva nomi e particolari di persone che avevo incontrato, che non intendevo partecipargli.
Hanno annunciato che tutto il mio bagaglio doveva essere controllato, segnando i miei bagagli con strisce gialle e il numero sei, il livello di più alto profilo in uso nelle procedure di sicurezza aeroportuali israeliane.
Del mio bagaglio a mano, mi è stato permesso di portare solo “portamonete, pc mobile, libro, cappotto,” in un sacchetto di plastica. Finalmente dopo circa 45 minuti, mi è stato permesso di andare, prendendo solo quello che mi hanno permesso del bagaglio a mano; sono stata sottoposta a check in, in una sedia contrassegnata di loro scelta. Sono stata invitata a passare attraverso l’area di sicurezza britannica, e ad andare direttamente al gate.
Al cancello, sono stata portata in una piccola stanza. Il sacchetto di plastica con il bagaglio a mano è stato portato via per una ispezione, e ho dovuto spogliarmi dietro una tenda. Stavo tremando vestita solo in calzamaglia e in canottiera, mentre hanno esplorato i miei indumenti, dai jeans al reggiseno. Poi un’altra donna mi ha esaminato con uno scanner, sentendo me in tutto, toccando i vestiti che ancora indossavo con una garza, per prelievare campioni per il “controllo chimico.” Quando ho protestato, ha detto che le obiezioni mi avrebbero fatto perdere il mio volo. Mi hanno finalmente reso i miei vestiti, poi sono passati altri 20 minuti per controllare i miei contatti telefonici. Mi hanno accompagnato camminando all’aereo cinque minuti prima del decollo.
All’arrivo in Israele, la traversia è continuata. L’ispettore ha preso il mio passaporto e mi ha fatto seguire una altra agente di sicurezza attraverso lunghi corridoi e scale. Ella ha chiuso a chiave dentro un piccolo armadio il mio bagaglio a mano nell’involucro di plastica, controllato le mie tasche, e mi ha indirizzato a una stanza vicina per un “interrogatorio”.
Due uomini e una donna erano seduti all’interno. Gli uomini si presentarono come Shavit, “capo del dipartimento di estrema sinistra e destra nei servizi di sicurezza dell’interno”, e Reshef. La donna non mi è stata presentata. La chiamavano Karin, e hanno spiegato che aveva ricevuto l’ordine di rimanere in silenzio durante l’intero procedimento.
Sono stata interrogata per oltre tre ore. Hanno detto che dovevano soltanto “arrivare a conoscermi meglio” e ho chiesto che mi fosse stato permesso di andarmene. Non potevo. Essi hanno affermato che erano estranei alle ispezioni a Londra, che la nostra conversazione non veniva registrata, ed erano insoddisfatti del fatto che avevo messo in dubbio entrambe le affermazioni. Shavit ha spiegato che a causa delle mie attività, che peraltro erano tutte legittime, dovevano avvisarmi che alcuni dei palestinesi che collaborano ad esse avrebbero potuto tentare di usare me per trasferire persone o cose in Israele, persone che potrebbero essere terroristi, cose che potrebbero essere le bombe, e volevano farmi riconoscere questo rischio. Poi lui ha detto che volevano capire che cosa mi ha spinto a essere una attivista. Ho detto che non volevo parlare con loro. Non mi è parso che se ne curassero.
Soprattutto, sono rimasta in silenzio. Silenziosa su dove ero stata all’estero, sulle riunioni a cui ho partecipato e sulle conferenze ho tenuto. Silenziosa, quando hanno chiesto se sono stata coinvolta in progetti internazionali come il Welcome in Palestina, la flottiglia di Gaza, la Global March a Gerusalemme. Silenziosa quando mi hanno chiesto su incontri con gli Anarchici Contro il Muro, e quando hanno offerto la loro “assistenza” per ottenere permessi per le manifestazioni, o per inviare messaggi ai soldati in Cisgiordania con consigli su come affrontare meglio le manifestazioni. Frustrati con la mia non-cooperazione, sono passati alle domande personali, sulla mia famiglia, i miei studi, i miei rapporti con altri attivisti, il mio appartamento, le mie aspirazioni, alternando il loro atteggiamento tra l’amichevole e l’offensivo.
Reshef detto che io non sembravo una anarchica, quando si è dedicato ai miei capi di abbigliamento, emettendo commenti su ognuno. Shavit lo ha avvertito che ciò costituiva molestia sessuale, poi ha cercato di convincermi a bere un caffè insieme e a fare una chiacchierata amichevole.
Sono rimasta in silenzio lo stesso, intrecciando i capelli, aspettando il momento opportuno.
Hanno minacciato di farmi passare la notte lì. Hanno chiacchierato, prospettando di intercettare il mio telefono, leggere le mie e-mail e perquisire il mio appartamento. Hanno provato a giocare a poliziotto buono, poliziotto cattivo, e si sono alternati lasciando la stanza.
Dopo quasi tre ore, durante le quali sono rimasta saldamente in silenzio, hanno rinunciato. Prima di rilasciarmi, Shavit mi diffidò di non farmi usare da nessuno. Ha detto che per ora avevo agito nel rispetto della legge, ma una volta che l’avessi violata, avrei dovuto ricordarmi di essere sorvegliata, e che mi avrebbero visto come un leader, così da poter essere ritenuta responsabile per guidare altre persone a compiere atti illegali. Poi è uscito per chiamare un addetto alla sicurezza e avere il mio passaporto. Sono trascorsi altri 20 minuti prima che fossi finalmente scortata attraverso il controllo passaporti, e potessi lasciare l’aeroporto.
Mi hanno raccomandato di non divulgare tutto ciò, il che è stato un buon motivo per la pubblicazione di questa storia.
Questo cosiddetta conversazione amichevole, proprio come la meno amichevole incursione della polizia nella mia casa circa un anno fa, hanno lo scopo di intimidire e minacciare me e altri come me. Essi vogliono che noi sappiamo di essere sorvegliati, intercettati, pedinati. Cercano di spaventarci per sottometterci e di terrorizzarci per zittirci. Non ci riusciranno. Tre ore di interrogatorio erano un piccolo prezzo da pagare rispetto alla sofferenza dei miei partner palestinesi, e io continuerò a alzare la voce per la libertà e la giustizia, fino a che tutto il mondo canterà insieme.
Leehee Rothschild è stata attiva nella lotta palestinese per oltre un decennio.
Attualmente lavora con Anarchici Contro il Muro e Boycott From Within.
Scrive di attivismo e di lotta politica sul suo blog “Radically Blonde” e su altre pubblicazioni.
traduzione di Carlo N.
Quest'opera viene distribuita con Licenza Creative Commons. Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.