mercoledì 19 ottobre 2011
I gruppi ebraici di estrema destra responsabili l’anno scorso di una serie di attacchi incendiari a moschee della West Bank hanno cominciato a scavare un terreno pericoloso quando hanno recentemente rivolto per la prima volta la loro attenzione a luoghi sacri all’interno di Israele. E’ stata incendiata una moschea e pochi giorni dopo è seguito un attacco a tombe mussulmane e cristiane.
In ciascun caso i coloni hanno lasciato il loro biglietto da visita – le parole “cartellino del prezzo”, indicanti un atto di vendetta – scarabocchiato sulle loro opere.
Nessuno dei recenti attacchi contro i palestinesi ha portato a incriminazioni. La cosiddetta “divisione ebraica” dei servizi segreti, lo Shin Bet, che è incaricata di risolvere questo tipo di reati, è nota per essere meno che tiepida nel condurre le indagini.
Come molte istituzioni statali, compreso l’esercito, i suoi ranghi sono pieni di coloni.Paradossalmente è stato proprio un rapporto dello Shin Bet a mettere in guardia circa il fatto che le reti terroristiche ebraiche non solo stavano fiorendo nelle serre degli insediamenti nella West Bank ma si stavano facendo più audaci a causa di tale impunità.
La dissacrazione di una moschea nel villaggio beduino di Tuba Zangariya, nel nord di Israele, non dovrebbe pertanto essere stata una sorpresa. E’ stata seguita nel fine settimana dal saccheggio di due cimiteri a Jaffa, vicino a Tel Aviv.
L’obiettivo del movimento dei coloni consiste nel distruggere ogni speranza di una soluzione a due stati, che viene considerata come un limite del diritto del popolo ebraico a tutta la terra promessa da Dio. Istigati da un numero sempre crescente di rabbini, gli integralisti di questo campo sono ciechi riguardo al fatto che i dirigenti di Israele, compreso il primo ministro Netanyahu, hanno già svuotato il processo di pace.
Non è stata una coincidenza che l’incendio della moschea di Tuba sia avvenuto sulla scia di una richiesta, il mese scorso, di Mahmoud Abbas alle Nazioni Unite di riconoscimento dello stato palestinese. Il presidente dell’Autorità Palestineseha alzato la posta, e lo stesso hanno fatto i coloni, includendo, a questo punto, anche la minoranza arabo-palestinese d’Israele, un quinto della popolazione, nel loro “cartellino del prezzo”.
La nuova strategia degli estremisti ebrei consiste evidentemente nell’attizzare l’odio e la violenza su entrambi i lati della Linea Verde. Come è stato osservato da Jafar Farah, direttore del Mossawa Center, un gruppo di patrocinio legale arabo-israeliano, l’intenzione è di cancellare ogni residuo sostegno a uno stato palestinese da parte degli ebrei d’Israele, persuadendoli che si trovano in mezzo a guerra apocalittica per la sopravvivenza. Sotto questo aspetto il bersaglio è stato scelto con attenzione.
Tuba è una delle poche comunità arabe ferventemente “leali” d’Israele. Anche se molti beduini furono espulsi nel corso della guerra del 1948 che creò Israele, per le tribù di Tuba e Zangariya fu riservata un’area accanto alle comunità ebraiche come premio peraver combattuto al fianco delle forze armate israeliane.
Privati del lavoro e sottoposti alla stessa discriminazione sofferta dal resto della minoranza araba, molti giovani, come i loro nonni, sono tuttora arruolati nell’esercito israeliano.
Dopo l’attacco alla moschea, un dirigente della comunità ha urlato a un giornalista israeliano: “Siamo stati tra i fondatori dello stato d’Israele.” Ma con il diffondersi della notizia della dissacrazione della moschea, giovani infuriati hanno incendiato edifici governativi, sparato in aria con i loro fucili dell’esercito e si sono scontrati con la polizia. Il sogno dei coloni di incendiare rapidamente la Galilea è sembrato potesse essere realizzato.
Sabato scorso, in seguito all’attacco alle tombe di Giaffa, per rappresaglia è stata scagliata una bomba Molotov contro una vicina sinagoga, infiammando ulteriormente le tensioni.
Netanyahu è stato tra quelli che hanno denunciato l’incendio della moschea, ma la logica del suo approccio agli accordi per il processo di pace ha creato un clima in cui la versione di un’epica battaglia degli ebrei per la sopravvivenza suonaplausibile a molti israeliani comuni.
Analogamente ai coloni, Netanyahu si oppone all’emergere di uno stato palestinese significativo; anch’egli lascia intendere che la rabbia del mondo contro Israele sia alimentata dall’antisemitismo; e anch’egli vuole riaprire la “pratica del 1948”, una storica resa dei conti in cui lo status di cittadini della minoranza
araba verrebbe riesaminato.
E, come i coloni, Netanyahu affronta il tema della pace con un pugno di ferro che esige, al meglio, la capitolazione palestinese, e suggerisce, al peggio, un futuro in cui potrebbe essere necessaria una seconda ondata di pulizia etnicaper “finire il lavoro” del 1948.
I festeggiamenti nei territori occupati per la mossa di Abbas all’ONU – un solitario atto di sfida da parte del dirigente palestinese – si inacidiranno presto, diventando chiaro che gli USA e Israele non hanno alcuna intenzione di fare concessioni. La questione è: e dopo? Nonostante i migliori sforzi di Netanyahu e dei coloni integralisti di formulare una risposta, potrebbe non essere di loro gradimento.
Senza la speranza di uno stato, i palestinesi dovranno elaborare una propria nuova strategia per affrontare la realtà di un sistema di apartheid in cui i coloni ebrei divengano i loro vicini permanenti. Intrappolati in un singolo stato governato dai loro occupanti, i palestinesi probabilmente faranno riferimento all’esperienza dei loro cugini all’interno di Israele.
La comunità araba di Israele ha lottato per decenni contro l’emarginazione e la subordinazione all’interno dello stato d’Israele. Ha reagito con una vibrante campagna per l’eguaglianza che si è contrapposta alla maggioranza ebrea e ha avuto come risultato un’ondata di leggi antiarabe.
Le due comunità palestinesi, entrambe poste di fronte a un futuro più duro sotto il governo d’Israele, hanno tutti gli incentivi per sviluppare una piattaforma unificata e battersi insieme – e con maggior potenza – contro un regime predominante di privilegi ebrei.
La loro reazione potrebbe essere una violenza da occhio per occhio, che è sicuramente quel che i coloni preferirebbero. Ma una strategia più efficace e probabilmente a più lungo termine è un movimento per i diritti civili molto simile a quelli che si sono battuti contro le leggi di Jim Crow negli Stati Uniti e contro l’apartheid in Sud Africa. Un semplice grido di protesta, urlato a un mondo esasperato dal comportamento autodistruttivo di Israele, sarebbe: “Una persona, un voto.”
Netanyahu e i coloni sperano di sottomettere i palestinesi con la creazione del Grande Israele. Ma, come suggerisce la conflagrazione delle moschee, alla fine possono ottenere il contrario. Ricordando ai palestinesi dall’altra parte della Linea Verde il loro destino comune, Israele può scatenare una forza troppo potente per essere controllata. Il cartellino del prezzo – questa volta preteso dai palestinesi – sarà davvero alto per i suprematisti ebrei.
Jonathan Cook ha vinto il premio speciale Martha Gellhorn 2011 per il giornalismo. I suoi libri più recenti sono “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East (Pluto Presso) [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente” e “Disappearing
Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” (Zed Books) [La scomparsa della Palestina: esperimenti israeliani di umana disperazione].
Il suo sito web è: www.jkcook.net.
Da Znet – Lo spirito della resistenza è vivo
http://www.zcommunications.org/israel-lays-ground-for-anti-apartheid-struggle-by-jonathan-cook
Apartheid in israele
Traduzione di Giuseppe Volpe
Pubblicato da arial a 23:48
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