Pellegrini di Giustizia di UN PONTE PER BETLEMME 2012
“Dovremo lasciarci condurre dall’annuncio, dalla denuncia e dalla rinuncia”
don Tonino Bello
Ci accoglie con calore e comincia con gli occhi umidi a raccontare la sua storia. Una storia segnata da grande sofferenza, lotta e passione. E’ vivo in lei il ricordo del padre costretto nel ’47 a lasciare Haifa, profugo in Libano. Disoccupato con cinque figli da sfamare, al suo rientro nuovi “ospiti” abitano la sua casa. A loro dovrà pagare le sue fotografie di famiglia che ha ritrovato proprio accanto alla sua vecchia casa. Gli unici affetti custoditi malamente durante la sua assenza.
Araba, cristiana melchita, cittadina israeliana Violette Khoury ci accoglie nella sede di Sabeel, il centro ecumenico nel cuore della città di Nazareth impegnato sulla teologia della liberazione. Fondato 20 anni fa subito dopo la prima guerra del Golfo, Sabeel in arabo significa “sentiero” ma anche “ ruscello”. “C’era bisogno di una risposta cristiana, una voce cristiana unita – spiega – ridotti all’1,6% di presenze rischiamo di sparire in un Paese dove coesistono almeno 20 confessioni e e gruppi religiosi nella sola Galilea. Pochi e divisi. E la divisione genera debolezza. Non potevamo riamanere passivi: era necessario prenderci per mano per intraprendere la strada della giustizia e della pace.”
Il centro promuove numerose attività rivolte a tutta la comunità cristiana, adatte alle diverse età, dai bambini alle donne, alle famiglie. Si collabora anche con i movimenti pacifisti israeliani. “Non ci sono né iscritti né soci, siamo tutti volontari –racconta – studiamo, organizziamo conferenze, leggiamo la Bibbia, incontriamo pellegrini. Si lavora molto sul tema dell’identità (siamo palestinesi ma cittadini di Israele), sul recupero delle nostre radici cristiane, per la salvaguradia della lingua araba e per favorire le relazioni tra le diverse chiese e l’integrazione”.
Per i palestinesi non c’è solo il muro di cemento dell’apartheid: ci sono tutte le infinite discriminazioni, dal lavoro allo studio, tra chi vive nella città araba e chi nella recente Nazareth Illit, il municipio israeliano. Insomma l’applicazione delle leggi sono diverse. Diverse perfino nella libertà di amare: “Per un’ araba israeliana di Nazareth non è possibile innamorarsi di un palestinese di Ramallah, perderebbe la cittadinanza, al contrario se un ebreo si sposa all’estero il coniuge ottiene il riconoscimento della cittadinanza”.
Per non parlare delle difficoltà nell’istruzione. “A Nazareth c’ è una sola scuola statale. Grazie agli istituti privati religiosi e alle scuole aperte a cristiani e musulmani, i nostri ragazzi possono studiare. Tuttavia nelle università israeliane non ci sono servizi religiosi e per essere accettati i giovani devono dimenticare le loro origini e il loro essere cristiani”.
Al pessimismo e alla paura, si contrappone il dinamismo di Violette nel tessere relazioni, denunciare i privilegi e le privazioni di diritti per creare ponti di pace e alimentare la memoria.
“Perchè è dalla memoria che si costruisce il futuro”, ribadisce Violette, e la verità fa superare le barriere, i muri sociali e culturali. Vivere oggi a Nazareth cosa comporta? “E’ una sfida quotidiana che invita alla denuncia delle ingiustizie, alla resistenza non violenta, all’apertura all’altro.
E’ la direzione giusta che può portare alla verità oltre il pregiudizio, perché vivere nell’ignoranza crea illusione e fomenta la violenza e l’odio”. E aggiunge: “Sono nata a Nazareth, ho lavorato per 45 anni in una farmacia, sono madre di famiglia, sento che apparteniamo alla stessa terra. Questo cielo e questi vicoli sono gli stessi che ha visto e percorso Gesù. E Maria. E’ la casa di tutti i cristiani. E’ la nostra spiritualità. Non si può abbandonare la propria terra”.
E il coraggio di Violette ci accompagna a Sepphoris, uno tra i 17 villaggi distrutti nel ’48 attorno a Nazareth. Quanti i profughi visti durante la sua infanzia fare ritorno a Nazareth sotto il controllo militare! “Profughi interni o presenti assenti”, privati della loro terra e delle loro abitazioni nella pulizia etnica del ’48.
Ed ecco le rovine delle case, una pineta per cancellare la memoria. E’ cio che resta di questo villaggio ormai invisibile. E’ sopravvissuto il monastero di Sant’Anna. E ancora una volta ad accoglierci è l’abbraccio di una donna, Suor Hana, che mostrandoci un’antica foto alla parete, con la pazienza incredibile tipica di palestinesi, commenta: di tutte queste case non è rimasto pietra su pietra. Ma noi, qui, resistiamo ogni giorno.
Resistiamo rimanendo.
E noi come amava dire Vittorio, ripetiamo instancabili: Restiamo umani!
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