Quando Barack Obama ha detto a Israele “la schiettezza fa parte di una buona amicizia”, le élite politiche del Paese hanno avuto il sentore che fossero finiti i decenni di ambiguità verbali sul conflitto con i palestinesi. Nel discorso del 4 giugno, all’Università del Cairo, si è espresso chiaramente: “Come non si può negare il diritto di Israele ad esistere, nemmeno si può negare quello della Palestina”.
Il presidente degli USA avrebbe potuto rivolgersi a Benjamin Netanyahu, il primo ministro di Israele, che rifiuta di fermare la
colonizzazione di terreni palestinesi o di premere per una soluzione a due Stati del conflitto. Tuttavia, per quanto Obama cerchi di cambiare discorso, in e sul Medio Oriente, Netanyahu continua nel tentativo di cambiare argomento.
Obama ha scelto come terreno di battaglia le colonie ebraiche su terra araba occupata, che, in base alla legge internazionale, sono tutte illegali. “Gli Stati Uniti non accettano la legittimità di insediamenti israeliani continuativi”, ha comunicato. Washington ha chiesto un congelamento completo, comprendente la cosiddetta “crescita naturale”, che ha permesso agli insediamenti di crescere in modo esponenziale. Netanyahu, a Londra, in attesa di vedere George Mitchell, il rappresentante speciale del presidente, vuole parlare di economia. Questo è una cinica frode.
Netanyahu, è importante ricordare, ha sempre sostenuto che i palestinesi non possono attendersi una nazione, ma solo un qualche genere di governo sovra-municipale. Che abbia pronunciato il termine “Stato” nel discorso programmatico del 14 giugno, in risposta a Obama, non apporta alcuna modifica significativa. Vi è una pretesa religiosa ebraica sull’Israele della Bibbia, Eretz Israel, ma Netanyahu, in più, crede che per la sicurezza di Israele sia necessario un cuscinetto di terreno occupato – comprendente la maggior parte della Cisgiordania – per essere isolati dai vicini arabi. Per lui, l’intera equazione arabaisraeliana è un gioco a somma zero. Questo esclude “terra in cambio di pace”: l’approccio inderogabile, per il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sin dalla Guerra dei Sei Giorni, nel 1967.
La prima volta in cui era stato primo ministro, fra il ’96 e il ’99, invece che “terra in cambio di pace” aveva offerto “pace in cambio di pace”; ora stende un velo di fumo, circa una “pace economica”. L’economia, e la prospettiva di un lavoro, sono, com’è naturale, potenti agenti di cambiamento. Lo straordinario successo di Israele nel costruire un’identità nazionale e sviluppo economico fungono giustamente da accusa quotidiana contro i vicini arabi, indeboliti e resi stentati da autocrazie introspettive. Tuttavia il discorso di Netanyahu, per il quale Israele può aiutare gli arabi ad abbracciare la globalizzazione, trasformando la regione in una famiglia felice, ha da spiegare un po’ di storia recente. Mentre è vero che i leader arabi usano lo stallo di “ne’ guerra ne’ pace” per giustificare il monopolio sul potere e sulle risorse, è anche vero che non solo loro, ma pure i loro cittadini, si sentono turlupinati dall’esperienza di Oslo.
Nel ’92-’96, all’apice del processo di pace, solo Israele ha raccolto un dividendo dalla pace, senza per questo doverla stipulare. Il suo riconoscimento diplomatico era passato da 85 Paesi a 161, il che aveva condotto a raddoppiare le esportazioni ed a moltiplicare per sei gli investimenti esteri. Nel frattempo, il reddito pro capite nei territori occupati era caduto del 37%, mentre il numero dei coloni era cresciuto del 50%. Lo sviluppo economico ha a che fare con i fatti; Netanyahu si occupa di cosmetici.
Con una pace economica, sostiene, si toglierebbero le barriere alla crescita, e l’economia palestinese tornerebbe a galla. Ma Israele può e dovrebbe rimuovere comunque la maggior parte di quegli ostacoli. Secondo l’ONU, il mese scorso vi erano 614 posti di blocco all’interno della Cisgiordania – un’area inferiore a 6.000 chilometri quadrati; a giugno ce n’erano 613. Che siano stati recentemente rimossi, diciamo, quelli che strangolano Nablus, ha fatto sì che riprendessero gli affari. Ma ciò che questo dimostra è solo come la suddivisione israeliana della Cisgiordania stia soffocando ogni attività.
L’insistere emotivo di Netanyahu sulla crescita “naturale” degli insediamenti è altrettanto falso. Con vaste sovvenzioni, queste colonie crescono ad una velocità tre volte superiore a quella della popolazione entro la Linea Verde. I confini comunali delle colonie si estendono molto oltre le aree edificate. Questo, combinato con il muro di sicurezza, costruito su terra cisgiordana, le strade solo per coloni e le zone militari, fa sì che i palestinesi siano recintati in bantustan sempre
più piccoli, e non contigui.
A qualunque economia occorrono, fra le altre cose, territorio e libertà di movimento. L’economia palestinese, prostrata, non fa differenza. Netanyahu lo sa, e l’amministrazione Obama gli ha esplicitato di sapere che lo sa. Nella sua ultima amministrazione, Netanyahu ha trasformato la propulsione per la pace in un puro processo: accumulare dispute irrisolte per parcheggiarle in negoziati sullo “status definitivo”, che non ha mai inteso iniziare. Sotto la pressione USA ha cambiato tattica, ma lo scopo è precisamente lo stesso.
Financial Times, 25 agosto 2009
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