Traduzione di
Renato Tretola
6 ottobre 2011
I Palestinesi dovrebbero riflettere sul forte sostegno del compianto Edward Said alla soluzione a “ Uno Stato”
Verso la fine del tanto atteso discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Mahmoud Abbas ha citato lo scomparso poeta nazionale palestinese Mahmoud Darwish, dicendo: “Stare qui, restare qui, permanenti qui, eterni qui, abbiamo una meta, una, una: Essere”.
Queste sono parole incredibilmente enfatiche, dette da un leader che si è più o meno guadagnato la legittimità e il rispetto della sua gente con l’accoglienza da eroe che ha ricevuto in Cisgiordania al suo ritorno. Dopo aver sostenuto quello che alcuni analisti e leader politici hanno considerato un tour de force oratorio – secondo gli standard di Abbas, naturalmente – il suo discorso ha seguito le impronte retoriche del suo carismatico e problematico predecessore all’OLP Yasser Arafat.
Sullo sfondo del demoralizzante tono pessimistico del discorso di Obama e del comportamento risolutamente anti-compromissorio esibito da Netanyahu, e a dispetto di tutto ciò, Abbas ha pronunciato delle parole moderate. Beh, non esattamente.
Poste nel contesto di un messaggio che nei fatti ha annacquato le aspirazioni politiche dell’autodeterminazione palestinese, il senso esistenzialista dei versi sempre ammalianti di Darwish ne risulta sminuito. Avendo quasi supplicato alla comunità internazionale di essere accettato, e nemmeno come Stato-membro effettivo, il giornalista e blogger libanese Khodor Salameh bruscamente ma correttamente lo chiama “uno stupido scherzo”. Salameh conclude, nel suo articolo su Al Masry Al Youm: “Non ci sarà alcuno Stato per Abu Mazen e per i suoi collaboratori, né per i suoi rivali. Non ci sarà alcuno Stato a settembre”.
Facendo proprio il discorso ottimistico secondo il quale quel momento è stato l’inizio di una “primavera palestinese”, Mahmoud Abbas ha dichiarato che stava parlando “a nome del popolo palestinese sia della madrepatria che della diaspora”. Eppure l’analisi fatalistica e scoraggiata avanzata da Salameh e da altri commentatori della diaspora palestinese, come Ghada Karmi e Ali Abunimah, contraddice l’entusiasmo di Abbas.
Il dibattito sulla soluzione “a un solo Stato” si perde tra la pletora di commenti sul fatto che questa sia stata o no una mossa politica astuta al fine di far progredire la causa palestinese nell’arena internazionale. La soluzione ad “uno Stato” è scartata come un ideale utopistico che non può essere avanzata nemmeno su un immaginario tavolo negoziale, semplicemente perché la sua posizione radicale mina alla base le dinamiche ormai deteriorate del fallito processo di pace.
Il luminare Edward Said, intellettuale palestinese decisamente coraggioso, che era stato un fervente propugnatore della soluzione a un solo stato verso la fine della sua carriera, è venuto a mancare otto anni fa nello stesso fine settimana in cui Abbas è salito sul palco. I lucidi ragionamenti di Said sono ora più che mai estremamente necessari, poiché “quella che per molti Palestinesi è un’incomprensibile crudeltà del destino nonché la misura di quanto spaventose siano le prospettive di vedere accolte le proprie richieste, può essere chiarita vedendo l’ironia come un fattore costitutivo delle proprie vite”.
Meditando a fondo sugli aspetti performativi del discorso nel campo della critica letteraria, Said spiega che “parlare [come ha effettivamente fatto Abbas di fronte all’Assemblea Generale] significa muoversi verso l’altro, colui che ci sta di fronte e nostro ospite… L’ironia sta nel fatto che non si può mai direttamente arrivare insieme a un altro”. Nella geografia politica non essere capaci di “arrivare insieme a un altro” si manifesta nell’edificio architettonico dello svettante muro di separazione israeliano che taglia a metà città e villaggi secondo la logica prestabilita non solo di isolare i Palestinesi dagli Israeliani – ma anche da sé stessi. Il recente annuncio da parte del Governo di Israele di avere approvato la costruzione di 1100 abitazioni per coloni rafforza la posizione secondo la quale negoziare, nell’ambito di una relazione asimmetrica, è nei fatti una forma di negazione.
Con l’amministrazione Obama che si pone fermamente come una delle leadership più militaristiche della storia degli Stati Uniti – basti pensare agli assassini di al-Awlaki e di bin Laden nonché, peggio, ai quasi quotidiani attacchi aerei in Pakistan, Somalia e Afghanistan – qualunque prospettiva di patria palestinese è assolutamente troncata.
Eppure, come dice Said, “noi possiamo chiederci da questa prospettiva se una causa può mai essere davvero persa”. Partorita nel 1995 come Tanner Lecture sui valori umani1, Said giunse a questa conclusione profetica dopo aver meticolosamente elencato una litania di fallimenti e frustrazioni, personali e politiche, riguardanti la questione palestinese. Egli descrive minuziosamente il suo stesso vivo coinvolgimento e il suo successivo distacco pubblico dall’OLP a causa della sua politica sempre più puerile, piegata alle pressioni israeliane e statunitensi.
Ciononostante, l’episodio della “abiura” rafforzò e affilò le sue già acute capacità, portandolo infine a considerare l’idea dello stato unico come soluzione realistica. Questo è ciò di cui si ha bisogno in questo momento: un nuovo inizio, lontano dalle follie dei leader. Nel suo magistrale libro Beginnings: Intention & Method Said tira fuori quello che intende come inizio: “Un’attività produttiva consapevolmente intenzionale che, soprattutto, è un’attività le cui circostanze includono un senso di perdita”.
Ciò che dovrebbe essere promosso durante l’inutile corso di questa richiesta all’ONU è una rinascita matura di una coesistenza secolare, che prenda in considerazione le complessità esistenti sul terreno della cittadinanza fluida, come quella dei Palestinesi che vivono in Israele come cittadini israeliani. Questo può accadere attraverso movimenti come quello che promuove la campagna Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, insieme ad altre organizzazioni di base israeliane come B’Tselem e Ta’ayush, ma anche attraverso iniziative come il Divano Est-Ovest, che Said aveva eroicamente costituito con il suo interlocutore musicista Daniel Barenboim. Tra la lentezza e gli stalli delle rivoluzioni nel mondo arabo, che sono state iniziate con tanta passione politica dai giovani, c’è sempre la confortante speranza che esistere è resistere.
Farid Y. Farid è un dottorando all’ultimo anno alla University of Western Sidney, nonché scrittore freelance
Link : One Democratic State Group
http://rough-moleskin.blogspot.com/2011/10/i-palestinesi-dovrebbero-riflettere-sul.html
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