Articolo pubblicato originariamente su la Valigia Blu
Di Paola Caridi
“La scelta è solo una: o il disastro o una soluzione”. Il presidente dello Stato di Israele, Isaac Herzog, riassume così, con poche, dure parole, la situazione in cui si trova il paese, da oltre due mesi al centro della più grave crisi costituzionale, politica, istituzionale, di sistema della sua storia.
La soglia da non valicare è lo stesso sistema istituzionale, la separazione dei poteri, la catena di comando sulle questioni di sicurezza interna e di gestione dell’occupazione della Palestina. E se è vero che proprio il sistema israeliano è l’oggetto di uno stravolgimento legislativo a opera del governo di destra estrema guidato da Benjamin Netanyahu, allora si comprende di più la pesantezza delle parole del presidente Herzog.

La durezza dell’espressione di Herzog, scuro in volto, testimoniano della frattura in atto in Israele. Una frattura profondissima, che sta scavando nella società solchi difficili da rimarginare. Il governo Netanyahu è riuscito a compattare – non nella Knesset, bensì per le strade – una opposizione di carattere trasversale, composta da segmenti della società israeliana che mai si sono uniti in una protesta che dura da oltre due mesi e che si allarga a macchia d’olio. Dagli esponenti del Likud alla sinistra-sinistra, dalla maggioranza (sino a poco fa) silenziosa a chi, al contrario, si era già schierato contro il ritorno al potere di Netanyahu.
Il vero assente, dicono in molti, è la questione palestinese. Eppure, nella storia di Israele, proprio l’occupazione della Palestina è considerata il cancro che ha eroso la solidità dello Stato dal punto di vista etico e politico. Perché, dunque, di questione palestinese non si parla, e perché i palestinesi non scendono in piazza? Sembra, a ben guardare, che per la prima volta ci sia Israele allo specchio, come raccontato nel “Libro della scomparsa”, il romanzo della scrittrice palestinese Ibtisam Azem (pubblicato in Italia da hopefulmonster editore), in cui si immagina da un momento all’altro la scomparsa misteriosa di tutti i palestinesi e la società israeliana che deve fare i conti solo con sé stessa.
D’altro canto, i palestinesi con cittadinanza israeliana hanno sperimentato – soprattutto dal maggio del 2021 – rinnovati pericoli verso la stessa sicurezza della comunità, che ora rappresenta il 20% della popolazione di Israele. Gli attacchi dei settori della destra estrema nelle città israeliane dov’è concentrata la popolazione palestinese sono ancora vivi nella memoria. E ancora vive sono le scene del pogrom a Huwwara a opera dei coloni radicali che vivono attorno a Nablus. In più, la situazione politica in Cisgiordania è – anche lì – di totale separazione tra l’ANP, Abu Mazen e i corpi di sicurezza legati al sistema di potere di Ramallah, da una parte, e la società palestinese frammentata nei diversi cantoni in cui l’occupazione israeliana ha suddiviso il territorio.
Le incognite, a questo punto, sono molte. Quasi tutte di ordine interno, e cioè di cosa potrebbe succedere dentro Israele. La protesta di piazza continuerà, si allargherà? E se sì, quanto inciderà su un possibile compromesso politico guidato dal presidente Herzog? Oppure la situazione è ormai andata oltre, e la frattura tra le diverse componenti della società, dell’economia, del sistema istituzionale, della sicurezza in Israele ha già provocato separazioni insanabili?
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