di Rosanna Tommasi
Gaza è un’esperienza straniante, un luogo sospeso, chiuso. Fino all’ultimo, al valico di Erez, l’ingresso dalla parte israeliana, non sai se riuscirai ad entrare, aspetti per ore controlli sui permessi che hanno già subito altri controlli, rispondi a domande che sono già state fatte, aspetti una conferma che non sei certo che arrivi. Se tutto va bene, passi poi attraverso tornelli che si aprono e si chiudono automaticamente, guidato da voci di persone che non vedi, cammini in silenzio in un luogo spettrale, una specie di atrio di un grande aeroporto, deserto, ed entri in prigione.
L’amore per la tormentata terra di Gesù mi ha portata di recente ad aderire ad una proposta degli amici di Vento di Terra, una piccola Ong sostenuta anche dalla Comunità di S. Angelo, di visitare i loro progetti in Cisgiordania e a Gaza.
Siamo partiti in pochi, un piccolo gruppo di compagni che condivideva la voglia di toccare con mano, vedere coi propri occhi, essere testimoni, per quanto possibile, di quanto solo conosciuto attraverso i mass media. Avere i permessi non è stato semplice, fino all’ultimo siamo stati incerti, poi finalmente l’autorizzazione.
La Striscia di Gaza è una piccola zona lungo la costa del Mediterraneo, tra Egitto e Israele, lunga una quarantina di chilometri e larga dieci, dove attualmente vivono circa un milione e settecentomila persone. Ha una lunga storia, è considerata una delle città più antiche del mondo, un luogo “aperto” dove nei secoli, proprio per la bellezza e la ricchezza del suo territorio, si sono susseguiti occupanti diversi, dai faraoni, agli assiri, ad Alessandro Magno, ad Adriano, e poi dagli Arabi, e dai Crociati, fino alla dominazione ottomana. Oggi Gaza è una zona circondata da un’imponente barriera metallica, all’interno della quale c’è una fascia di sicurezza di ampiezza non definita, la cosiddetta “buffer zone”, controllata dall’esercito israeliano per evitare che qualcuno si avvicini al muro. I centri abitati si susseguono senza soluzione di continuità, da Gaza City, al nord, fino a Rafah, al confine con l’Egitto, luoghi che potrebbero essere bellissimi, e conservano ancora traccia di bellezza, ma in una grande desolazione. La maggior parte della popolazione è composta da profughi espulsi dalle loro terre nel 1948, raccolta in otto campi gestiti dalle Nazioni Unite. Oggi il 70% della popolazione è sotto la soglia di povertà e vive di sussidi internazionali.
Cosa ha portato a tutto ciò? I confini di Gaza furono stabiliti nel ’48, con la creazione dello Stato d’Israele, ma la striscia fu subito occupata dall’Egitto, fu ripresa da Israele nel’67, e passò sotto controllo israeliano fino al 2005, quando, per decisione unilaterale, l’esercito si ritirò dalla striscia mantenendo però il controllo dei confini, dello spazio aereo e di quello marittimo. Dal 2006, con l’inaspettata vittoria di Hamas, il partito islamico che ha battuto Fatah alle elezioni, Israele ha sigillato la striscia, stabilendo e controllando l’ingresso di tutto ciò che serve per vivere alla popolazione, cibo, carburante, farmaci, materiali da costruzione…I valichi d’ingresso per le merci vengono aperti per poche ore al giorno e non sempre. Le attività economiche sono ridotte ai minimi termini, la pesca, che era una risorsa importante, è stata praticamente proibita, mettendo in ginocchio 45mila addetti, la popolazione dipende quasi esclusivamente dagli aiuti assistenziali, quando vengono fatti entrare. Gli abitanti di Gaza mancano dei diritti fondamentali, il diritto alla salute, all’educazione, al lavoro, alla libertà. Non hanno possibilità dignitose di vita.
Eppure, arrivando a Gaza City, si colgono i segni di un’economia sotterranea, nuovi alberghi, bei palazzi, la città che per la densità di popolazione si sviluppa in altezza, qualche auto moderna e lussuosa. Sono i soldi che provengono dagli Emirati, in particolare dal Qatar, che sostengono piccoli potentati locali e, ci dicono, le frange più estremiste dell’Islam. Tutto il materiale che entra passa dai tunnel scavati sotto il valico di Rafah, centinaia di tunnel le cui uscite in superficie sembrano grandi serre. Clandestinamente entra di tutto a Gaza, per fortuna, altrimenti la popolazione avrebbe serie difficoltà di sopravvivenza. Per le strade, sulle case, trovi ancora i segni della famigerata operazione “piombo fuso”, quei terribili 22 giorni iniziati il 27 dicembre del 2008, il sabato nero, con l’attacco aereo da parte dell’aviazione israeliana che bombardò centinaia di edifici, e provocò trecento morti solo in quel primo giorno, seguito, dopo una settimana, dall’attacco di terra, con la popolazione allo stremo, senza acqua potabile, senza elettricità, distrutte le fognature, e conclusi con un bilancio di 1417 morti, di cui 926 bambini, donne e anziani, oltre 5000 feriti, contro le 13 vittime dichiarate da Israele, di cui tre civili. Ventimila case, 240 fabbriche, 20 moschee, decine di scuole, diversi ospedali furono distrutti o pesantemente danneggiati. Ma si trovano anche segni più recenti, come la distruzione dello stadio di Gaza City, ridotto da un bombardamento dello scorso novembre ad un cumulo di macerie. Eppure a Gaza la gente vive, i giovani e i bambini sono tantissimi, ogni famiglia ha in media più di sei figli, i ragazzi vanno a scuola, ne abbiamo visitata una bellissima costruita nel piccolo villaggio di Um Al Nasser da Vento di Terra, in un contesto di estrema povertà, dove per mancanza di fognature, perché Israele non consente di importare i tubi per costruirle, vengono depurate le acque nere in vasche di decantazione, per poi essere riutilizzate, con le conseguenze sulla salute della popolazione e sulla falda che si possono facilmente immaginare. La gente ci guarda con curiosità, ma ci sorride, parliamo con il sindacato dei pescatori, che ricorda Vittorio Arrigoni come un eroe, con le maestre della scuola rigorosamente velate, ma con occhi bellissimi e ridenti, con le persone che lavorano con Vento di Terra, l’ingegnere, l’operatrice sociale, la giovane project manager, i contadini dei campi devastati perché le coltivazioni, per motivi di sicurezza, non possono superare i sessanta centimetri, pena essere rasi al suolo, come è accaduto a centinaia di alberi, olivi compresi, di cui vediamo solo i tronchi tagliati. Gente che resiste, nonostante tutto, che vive nella propria terra, nonostante tutto, spesso non ha alternative, gente che crede nella vita e la difende ad ogni costo. Noi viaggiatori ci sentiamo smarriti, ci sentiamo impotenti di fronte a questa situazione, ci guardiamo chiedendoci cosa possiamo fare. Nulla, se consideriamo l’aspetto politico della situazione, che ci trascende e che richiederebbe una mobilitazione della comunità internazionale, fino ad ora, nonostante tutto, assai carente, ma forse molto se ci concentriamo sulle persone, sulla loro dignità, sui loro diritti, lavorando al loro fianco per costruire, giorno per giorno, condizioni di vita dove il valore e i diritti delle persone sono al centro. Il centro per l’infanzia di Vento di Terra, con la sua scuola materna, il centro per la formazione delle donne, l’istruzione professionale, il lavoro per la presa di coscienza della propria dignità di persone, è un esempio di impegno possibile per rendere più umana la condizione di questa popolazione prigioniera. E’ una piccola cosa nella complessità e nella disperante situazione di stagnazione, ma una piccola cosa che può cambiare la vita delle persone, anche in una prigione come Gaza.
Quest'opera viene distribuita con Licenza Creative Commons. Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.