La rivoluzione o il regime

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admin | November 21st, 2011 – 12:31 pm

http://invisiblearabs.com/?p=3886

L’alternativa è semplice: il pane o i lacrimogeni. In Egitto, a giudicare da quello che ha deciso di fare il Consiglio Militare Supremo (SCAF) negli ultimi due giorni, tertium non datur. La foto – twittata dal più lucido giornalista occidentale al Cairo, Ben Wedeman della CNN – vale più di decine di analisi politologiche. Non solo per il pane e l’involucro del lacrimogeno tenuto nell’altra mano. Non solo per l’età del ragazzo, a piazza Tahrir come migliaia di altri. Ma, paradossalmente, anche per il suo abbigliamento: un impiegato, un commesso, oppure uno che – con la sua laurea in tasca – magari è riuscito a trovare un posto adatto alla sua preparazione. Un bancario, un consulente, chissà… Quello che sappiamo per certo è che rappresenta appieno la sua generazione, quella che ha fatto la rivoluzione del 25 gennaio.

Prima notizia, dunque. In piazza ci sono gli stessi che c’erano il 25 gennaio. I rivoluzionari, come chiamano se stessi. Gli attivisti, come li chiameremmo noi. Sono quelli che hanno fatto attività politica negli scorsi anni, assieme a quelli che si sono aggregati attraverso i social network. Per averne conferma, basta usare Twitter e cercare i blogger più conosciuti (salvo Alaa Abdel Fattah, ancora in carcere, e non nascondo di essere preoccupata per lui). Alcuni, tra i blogger, sono nella lista dei feriti, come Malek, uno dei cyberattivisti della prima ora. Non ci sono, dunque, provocatori, nella piazza, come invece ha detto sin dal primo momento la tv di Stato egiziana.

Lo scontro, insomma, è chiaro. Rivoluzione vs controrivoluzione, a dieci mesi dal 25 gennaio. Non ci sono, ovviamente, i milioni di persone in piazza, in questi giorni. Né potevamo aspettarcelo, perché il messaggio – rappresentato dal quel pane e dal quel lacrimogeno – è netto. O siete con noi (lo SCAF), e vi daremo la sicurezza per le strade e forse un po’ di respiro per uscire dalla profondissima crisi economica. Oppure, contro di noi, non ci sarà né pane né sicurezza. Forse, dicono invece i giovani, ci saranno democrazia, diritti, e un tipo diverso di equità sociale e sviluppo economico. Ci sarà, peraltro, non-violenza. Perché quello che è accaduto in questi due giorni e mezzo parla chiaro: i ragazzi di Tahrir possono tirare al massimo pietre, pezzi divelti di marciapiede, qualche molotov, ma non proiettili. Ed è una differenza netta, rispetto anche ad altre rivoluzioni arabe.

E’ questo il motivo per cui le elezioni sono, paradossalmente, la parte meno importante della vicenda. Tabto da far chiedere a molti intellettuali un loro rinvio. Ma come? Ci sono le prime elezioni libere del dopo-Mubarak e non le volete, sembrano dire i commentatori occidentali? Il problema è chi le controlla, sia dentro sia fuori dall’Egitto (sul voto all’estero e sul ruolo delle ambasciate, per esempio, esprimerei almeno qualche dubbio…). Il problema è anche la legittimazione che lo SCAF avrà da questo voto, che premierà non tanto i partiti, quegli stessi militari che all’inizio di novembre hanno blindato il proprio bilancio come esclusivo appannaggio delle forze armate.

La rivoluzione, dunque, è a rischio, come lo è da mesi. I ragazzi di Tahrir, i più politicamente lucidi, lo sapevano talmente bene da aver cominciato, da subito, una battaglia poco mediatizzata come quella contro i tribunali militari che processavano i civili. Confesso che anche a me sembrava una battaglia di retroguardia, o per meglio dire un po’ èlitaria, rispetto a tutto il resto che c’era da fare. E invece avevano ragione. Quella era la battaglia, perché lo SCAF – dicevano – rappresentava il vecchio regime.

Tanto è vera questa lettura, che il punto di non ritorno si è ‘recitato’ in un’aula di tribunale, quando Alaa Abdel Fattah ha rifiutato di essere processato da un tribunale militare, andando in galera. Da quel momento, è cominciata la vera resa dei conti. Che non è una resa dei conti solo tra èlite passata e futura. E’ una resa dei conti sociale. Qualche giorno prima di essere arrestato, @alaa aveva spiegato a Lina Atallah, ottima giornalista di Al Masri al Youm, come era cambiata la composizione sociale di piazza Tahrir. E’ un passaggio obbligato, per capire cosa stia succedendo in questi giorni, ed è la reificazione di quello che il sociologo Assef Bayat ha condensato dentro Life as Politics, pubblicato lo scorso anno (ne consiglio di nuovo, soprattutto oggi, la lettura).

“The marginalized are always the core”. From Christians, to tuk tuk drivers, to gay people, Alaa glorified how they challenge the status quo by denying its existence. “Now if you count the marginalized in all their forms, we are the majority, because it includes women, the poor, those who live in slums, in rural areas … That makes the mainstream a minority.” […]He sees the alliance in post-Mubarak Tahrir, where the mainstream men and women – both Christians and Muslims – of the “gentrified square” retreated, ceding the place to street sellers, gangs and what-not. Along with the remaining activists of the square, this alliance stayed on, claiming post-uprising demands at a time when many others went back home seeking “stability.” Those who slammed Alaa and his fellow activists for continuing the revolution after February were jealous, he says, because the fluidity of its identity allowed for cross-class solidarity. This keeps the revolution alive.

I ragazzi di Tahrir, insomma, non sono né elitari né pazzi. Sono lucidi, e rispondono ad altre esigenze, rispetto alla mia generazione di mezza età. E questo spiega anche come mai – me compresa – tutti abbiamo pensato che chi ha cercato di tenere la piazza il primo giorno fosse destinato a gestirla come il fortino di Custer. Soli, pochi, abbandonati. Poi, invece, sono arrivati migliaia di giovani (e non solo giovani) a difendere la piazza, rispondendo al tam tam di twitter. Cosa significa? Significa che la questione generazionale non è un orpello. E’ un pilastro fondamentale di quello che sta succedendo nella regione. I ragazzi di vent’anni non hanno alcun problema a scendere in piazza, a morire, a cercare di difendere Tahrir. Non solo perché – ahimé – a 20 anni si muore più facilmente, senza il bagaglio di una vita che rende pesante lasciare questa terra. E’ che ne va del loro futuro, di una vita bella e dignitosa o comunque possibile. Sono arrivati a piazza Tahrir, se la sono ripresa, chissà se riusciranno a difenderla. Ma non darei per scontato che la cinica politica che abbiamo costruito nei decenni e nei secoli non sia stata messa a dura prova da qualche migliaio di ragazzi. Che una lezione di politica, a tutti noi, ce l’hanno già data ieri. Con oltre venti morti, oltre un migliaio di feriti, e una pietra in mano.

Il brano di oggi per la playlist è obbligato. Il suonatore Jones di Fabrizio de Andrè.

 

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