“È il primo libro di Alon Hilu tradotto in italiano. Nel 2009 La tenuta Rajani ha vinto il Pras Sapir, il più importante (e ricco) trofeo letterario di Israele. Dopo tre mesi di polemiche sui giornali, lo stesso premio gli è stato tolto. «Conflitto di interessi», recitano le motivazioni ufficiali, perché tra gli organizzatori del premio c’è un parente dell’autore. Ma da subito si è parlato anche (soprattutto) di motivazioni politiche.
Perché, anche se è piaciuto tanto a Shimon Peres (“Un libro straordinario”, chiosa in quarta di copertina il presidente), per gli israeliani La tenuta Rajani è un libro complesso e controverso, che osa parlare di nakba («catastrofe», il termine con cui gli arabi designano l’esodo palestinese), proprio nel momento in cui il governo di Netanyahu ha deciso di abolire la parola dai libri di testo degli studenti arabi d’Israele.
Il romanzo di Hilu esplora l’incontro tra due culture – quella israeliana e quella palestinese – con gli occhi di un bambino arabo, Salah. Solitario e Malinconico, Salah cresce nella tenuta di famiglia, covando tragici presagi che riguardano la sua famiglia e il suo popolo. Tutto sembra cambiare quando Isaac Luminsky, affascinante polacco emigrato per unirsi ai primi coloni ebrei approdati della regione, arriva a sconvolgere la vita della tenuta. Biondo, pallido, occhi azzurri, Isaac è, nell’immaginazione di Salah, l’incarnazione dell’arcangelo Gabriele, e tra i due nasce una forte amicizia. Ma quando sua madre, la bellissima Afifa, si lascia sedurre dallo straniero, Salah è travolto dal suo stessouniverso visionario, e assiste alla trasformazione dell’idillio in tragedia.
Accusato di aver dipinto gli israeliani come un popolo colonizzatore e senza scrupoli, Hilu si è difeso: «Volevo raccontare gli anni della fondazione di questa città. Gli ebrei dicono sempre le stesse cose: che la costruirono sulla sabbia, che gli arabi se ne andarono via, che qui non c’era nulla…». Frutto di un lungo lavoro di documentazione storica, il romanzo si costruisce nell’alternanza delle pagine dei diari di Isaac e di Salah, per i quali l’autore si è ispirato a degli scritti custoditi nell’archivio sionista centrale di Gerusalemme.
Al di là di ogni possibile polemica, La tenuta Rajani è certamente un romanzo che costringe alla riflessione, aprendo punti di vista inaspettati, talvolta spiazzanti, sull’Alya, il ritorno del popolo ebraico. Ed è, soprattutto, un libro dall’immenso valore letterario, che affronta con una voce poetica e spietata il tema universale dell’incontro con «l’altro». ”
Cercando di capire meglio questo romanzo davvero inquietante e a tratti controverso, ho trovato questo (unico per ora) commento nel sito della casa editrice Einaudi. Perchè questo libro mi ha scosso e inquietato. E non però per i motivi che probabilmente hanno turbato i lettori israeliani. Certo, la narrazione e il linguaggio adottati slittano frequentemente dalla realtà storica a situazioni tragicamente oniriche, e ciò rende plausibile il senso di spaesamento e di angoscia che assale il lettore sin dalle prime pagine. Ma, perfino nella premessa, di Palestina non si parla mai. Il punto di vista dell’io narrante rimane sempre lo stesso, anche nelle pagine dedicate al piccolo Salah. E’ la ‘Terra d’Israele’ al centro di questo libro che vorrebbe parlare dell'”incontro con l’altro’. Nelle note introduttive, leggo che le fonti di documentazione relative all’ubicazione dei luoghi in cui si svolgono i fatti narrati provengono dall’associazione Zochrot, che tanto e degnamente si batte affinchè gli israeliani prendano coscienza di quella che è la storia del ‘nemico’ e anche la loro. Eppure… Certo il pioniere-colono Isaac non sarà piaciuto ai lettori sionisti, dipinto com’è in modo arrogante, maschilista e ottuso. Certo il razzismo sfacciato che trapela dai diarii di Isaac ben ricorda certe crude testimonianza neocolonialiste documentate in Orientalismo di Edward Said. Niente di nuovo per milioni di palestinesi che da decenni tramandano e testimoniano questi atteggiamenti e queste vicende subite, viste e ascoltate. È che quando parla Salah, il piccolo Salah dato per pazzo visionario, il tono non cambia. I palestinesi, che comunque sono denominati sempre ‘arabi’, appaiono sempre dei selvaggi rozzi e sanguinari, aggrappati alla sete di vendetta, superstiziosi, inermi, e succubi di chi già si delinea come il più forte. Salah il folle, Salah il visionario narra la catastrofe futura in modo lucidamente sconclusionato. Ma se alcuni ebrei israeliani, certamente quelli più attenti e sensibili alla ‘storia dell’altro’ concorderanno con l’autore che Tel Aviv, come tante altre città e tanti villaggi israeliani sorge sulle rovine di altri villaggi e città distrutti con la violenza, e riconoscerà forse in Isaac i tratti fanatici di qualche avo, ma anche respirerà contempora-neamente con lui la voglia struggente di progettare il futuro, chissà che diranno o direbbero i lettori palestinesi del piccolo Salah e della sua gente. Vorrei davvero sentire un parere dell'”altro”. E quale altro? Chi fra i palestinesi può trovare, leggendo, narrata anche la propria storia, la fatica ma anche l’orgoglio dei propri nonni? Ho cercato a lungo, a ritroso, qualche spiraglio che mi introducesse anche ai sogni dei palestinesi; alla loro cultura, ai loro progetti di quell’inizio secolo. Ma le parole raccolte qua e là tra le righe di quest’opera non coraggiosa fino in fondo, configgevano con i racconti spesso ascoltati nelle case di tutte le famiglie palestinesi che ho imparato a conoscere e ad amare in questi anni. forse Alon Hilu non ha avuto la fortuna di incontrarli. e di narrare davvero anche la loro storia.
Betta Tusset
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