15/09/2011
All’origine della disputa tra israeliani e palestinesi per l’acqua sono due concezioni antiche che gli antropologi riassumono così: per gli uni l’acqua è, in sostanza, pioggia che in fin dei conti appartiene al proprietario della terra sulla quale è caduta. Per gli altri l’acqua appartiene a dio e perciò nessuno può appropriarsene; e tutti possono usarla, nei limiti del possibile. Giorgio Cancelliere che riassume così, garbatamente, un ponderoso studio universitario, ha anche preparato un materiale che accompagna la Carovana dell’acqua, (organizzata dal Comitato italiano per un Contratto Mondiale sull’Acqua) venuta dall’Italia per rivendicare l’acqua come diritto umano, conoscere un’altra storia di sete perenne, portare solidarietà attiva ai palestinesi e promettere l’attenzione e l’aiuto che possono derivare da decine di milioni di voti referendari per l’acqua pubblica, l’acqua di tutti. Luisa Morgantini, che combatte da decenni per i diritti delle donne e per la pace nella giustizia, ha dal canto suo organizzato molti percorsi di apprendimento rapido, per vedere i posti – il deserto e gli alberi – e per fare incontri con esperti del settore, responsabili dei servizi idrici, uomini e donne comuni. Difficile vivere con poca acqua e ancora più difficile se e quando la scarsità è né più né meno di un’arma che serve a toglierti la terra e a cacciarti via dalla tua casa.


La scarsità indotta rende difficile la sopravvivenza di una parte della popolazione. I pastori, i cosiddetti beduini, sono costretti a vendere parte del gregge per sopravvivere e finiscono per abbandonare le terre e a divenire profughi in patria. Questi sono i più poveri tra i poveri, ma ai contadini palestinesi non va molto meglio. Hanno pochi litri di acqua a testa al giorno per vivere e se vogliono coltivare si riducono a comprare l’acqua dalle compagnie israeliane, per esempio Macarot, che la vende a prezzi non di favore. Il fatto è che le fonti sono inaridite dalle captazioni israeliane e quindi l’irrigazione comunitaria palestinese è impossibile.
Ne risulta un paesaggio cromaticamente paradossale. Nel deserto, quasi rosso, vi sono macchie verdi bellissime da vedere. Sono le fattorie dei coloni che sfruttano l’acqua della falda, la captano a una profondità anche di 400 metri e quindi hanno direttamente acqua potabile. Quella di cui i palestinesi dispongono, un’infima percentuale, è sottoposta oltre tutto a permessi e vincoli. Per motivi di sicurezza, dicono. Comunque è di qualità assai peggiore perché presa più in alto, con pozzi spesso di fortuna e soggetti all’inquinamento della agrochimica altrui. Le piantagioni dei coloni e il deserto dei palestinesi, nella valle del Giordano, intorno a Gerico, rafforzano la leggenda che i primi sappiano coltivare e i secondi no. Certo che con l’acqua è molto più facile. Ora gli israeliani hanno piantato un milione di palme e contano di piantarne altri 5 milioni. Servirà spazio, molto spazio. L’acqua e le palme sono l’artiglieria pesante della futura conquista della terra.

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