Lettera n.14
Come ero rimasto nell’ultima lettera, cosa faranno domenica?
Prima delle sette, siamo al check point; ci sono già varie camionette e jeepdell’esercito occupante; già questo è molto preoccupante; un soldatino scende da un mezzo con una scatola in mano, gli cade, si apre, rotolano per terra candelotti lacrimogeni. Ancora più preoccupante. Arriva un nuovo mezzo, con montato sopra uno strano attrezzo: ma cos’è? Niente, una radio (mi dicono), preoccupante. Bambini che cominciano a ritornare da scuola, le maestre non ci sono; mi chiedo, cosa proveranno questi bambini a percorrere la strada in mezzo a jeep e soldati in assetto di guerra?
Comunque riattraversano il check point, le maestre sono di là, non è cambiato nulla; vogliono obbligarle ad attraversare il metal detector, le stesse maestre che da sette anni passano tutti i giorni, a cui spessissimo viene anche fatta aprire la borsa! A parte un po’ di discussioni con i soldati, uno con un discreto inglese mi spiega che tutto questo è per la sicurezza di tutti (?). L’ufficiale che comanda non parla inglese, e ci fa dire, o di qua e lontani dal check point, o di là. Quindi andiamo di là con la scolaresca!
Dopo poco ecco arrivare anche i soldati: si mettono su un fronte per tutta la larghezza della strada e cominciano a spintonare; una soldatessa cade spingendo Aida, che cade pure: la maestra che è di fianco viene prelevata e portata ad una camionetta in stato di fermo.
Intanto lo spintonamento prosegue, fino a liberare una ventina di metri di strada; altro ordine: portate via le macchine che stazionano poco più in là.
Le maestre provano a far fare un canto o a mettere un po’ in ordine. Finalmente però l’ufficiale, in arabo, spiega: non sarà tollerata scuola in strada, sgombrate entro cinque minuti o cominciamo a sgombrare ed arrestare. Nessuno si muove, e si continua a provare a tenere l’ordine; obbligano ad arretrare ancora, nella zona da cui hanno fatto allontanare le macchine.
Io rimango dietro un lampione, a fare foto dietro i soldati; mi vedono, mi buttano fuoridi peso; finalmente, applaudita, arriva la maestra fermata.
Arriva la jeep con la “radio”: prima annuncia via tutti, poi mette sirene assordanti. Arrivano bombe-rumore, abbastanza sgradevoli, ma anche queste sopportabili; e poi i lacrimogeni, tirati a mano dai soldati; però siamo in città, i gas stazionano; non so davvero cosa contengono (nervino?), ma su qualcuno hanno effetti devastanti, c’è gente che si rotola per terra con la bava alla bocca; i ragazzi comincerebbero con le sassaiole contro i soldati, ma la gente (sono bottegai della zona), li ferma, lasciateci lavorare!
Resistiamo ancora un po’, ma non si può rimanere lì: se vedono un gruppo di persone, sparano lacrimogeni! e verso le nove anche i soldati ritornano al di là del check point, anche se rimangono tutta la mattina varie jeep con i soldati: quando ripasso di lì e gli domando se sono fieri di riuscire ad impedire la scuola, fanno finta di non capire, ma ti guardano con sorrisi di trionfo!
C’era stato poi, la sera prima ad un check point, un intervento dei nostri danesi, tra cui Jonas, che ha parenti israeliani, e a cui un soldato risponde: li trattiamo così perché sono animali, confermando purtroppo quello a cui ero arrivato io.
Da allora ogni mattina alcune maestre fanno un giro lungo e vanno a scuola; altre restano fuori, con una piccola manifestazione di solidarietà a loro. Ma metà delle maestre, con tutti i bambini, non fanno molta scuola; martedì pomeriggio c’è stato un incontro, e non ha risolto nulla; giovedì mattina si cambia di nuovo: non entra nessuna maestra; rimangono fuori, hanno invitato un po’ di personalità; vediamo arrivare anche il governatore della provincia; ormai alle sette fa un freddo cane, con un’arietta frizzante… tutti sono a sostegno delle maestre, le autorità a tutti i livelli; e’ bellissimo un gruppo di bambini che, mentre i grandi discutono, si mettono davanti ai soldati, un po’ a giocare e un po’ a stuzzicarli; ma i soldati non mollano; pare che rinviano a domenica prossima; cosa succederà?
Intanto sabato, con i due ragazzi italiani, ero tornato a vedere cosa era successo a Beit Ommar: sono molto contenti di rivederci, il primo bottegaio che ci vede ci offre una banana: vengono da Jerico!, mangiatele! Poi il nostro amico, referente per ISM, ci viene a prendere, e torniamo alla tenda di sostegno ai prigionieri; comunque tutti gli accessi principali sono sbarrati, o massi o barriere; e cosa fate? Aspettiamo… Invece chiediamo se aspettano liberazioni nello scambio famoso, ma no, né il figlio del nostro amico, né i tre figli di quello che parla un po’ di brasiliano e che era stato arrestato insieme a Jude, né nessuno di Beit Ommar sono nella lista.
Uno porta il caffè, noi ci facciamo un panino con i felafel vista l’ora, un altro porta il the, e ritorniamo a Hebron. Per fortuna domenica andando a Ramallah (si passa dalla stessa strada), ho visto che le chiusure sono state tolte.
Andavo a Ramallah con Aida, o meglio accompagnandola nei saluti, perché sarebbe partita il martedì. Quindi domenica andiamo fino a Nabi Saleh, a salutare una famiglia, anche se le attese liberazioni non sono ancora avvenute. Dei quattro attualmente arrestati, escono in tre, due con condanne a 18 anni e uno condannato a 10; ma il paese conta 500 abitanti, e di questi 248 sono passati dalle galere israeliane!
La signora da cui siamo (è dove ci riuniamo la mattina della manifestazione) si prepara ad andare in America, dove parlerà anche a dei congressmen, mostrando un video raccapricciante, con pezzi presi da tanti interventi dei militari a Nabi Saleh. Lo stanno finendo di preparare (suo marito lavora con la stampa). Vuole fare vedere a cosa servono i finanziamenti americani.
Alla parete c’è una cartina di Nabi Saleh, con segnate in rosso le case su cui pesa l’ordine di demolizione; sono ben dieci; questi ordini di demolizione non hanno altro senso che la rappresaglia contro chi è più attivo; inoltre non sono mai immediati; verranno eseguiti entro undici anni, e che fai intanto?…
The aromatico,
molto palestinese, e torniamo a Ramallah; andiamo di nuovo a cena dai nostri amici; stavolta cucina palestinese, cetrioli ripieni di carne e riso, conditi con yogurt e polpa di cetriolo; inoltre passaggio di consegne: finora Aida è stata a lezione reciproca con Mizar, lui impara l’italiano e, prima Aida, e d’ora in poi io, impariamo l’arabo; quando partirò anch’io devo trovargli un altro
Lisa, svedese, prende il coordinamento al posto di Aida, e io vengo invitato ad aspettare per fare la notte a Sheik Jerrah. Così rimango con Aida,
facciamo un lunch con i due responsabili palestinesi di ISM e poi l’accompagno all’autobus per Gerusalemme; vado a fare un po’ di lezione reciproca, arabo-italiano e per le sette e trenta sono a Sheik Jerrah.
Questa volta non ero stato preavvisato e non ho con me vestiti più pesanti; ma mi ricordo del mio passato di homeless, quando nel gennaio ‘76 ero come un barbone a New York: stavamo caldi con strati di giornali sotto i vestiti! Beh, facendo così è la prima notte che a Sheik Jerrah non ho mai avuto freddo! E’ anche capitato li di parlare con un israeliano un po’ meno stupido di quelli della casa. Sono sempre fissati sulla legalità della loro corte suprema; ma quando gli dico che certi insediamenti di coloni sono illegali anche per loro e che questo continuare a rubare terra rende impossibile la pace, sa solo dire che comunque devo anche ascoltare l’altra parte….
Martedì è il giorno delle liberazioni: dovunque si preparano festeggiamenti; io comunque è un po’ che manco da Susya e decido di andare; chi è rimasto a Hebron non ha visto un gran comitato di ricevimento, ma io credo che il grosso sia stato fatto alla sera; anch’io, dalle colline desertiche, mentre guardavo le stelle, vedevo incredibili fuochi d’artificio a Yatta, dove passando avevo visto radunarsi folle ai centri di raccolta e di sostegno ai detenuti. A Susya, camminata e abbeverata delle pecore; ma Jamal mi fa notare un problema: in alto, dove i soldati non lo lasciano andare, c’e’ un gregge: ora anche i coloni hanno le loro pecore! Mentre le pecore rientrano, vado a vedere il pozzo di Yusef, il fratello di Jamal; e’ incredibile, dopo sei mesi che non piove, c’e’ un po’ d’acqua sul fondo: certo se non pioverà l’acqua non potrà trovare la strada per riempire il pozzo, ma intanto e’ già buono che ce ne sia un po’; finito il pozzo sta sistemando la parte superiore, fino al coperchio: e qui c’è cemento e una cazzuola! Così mi metto ad aiutarlo; incastrare sassi, fare un bordo con una tavola, vede che me la cavo ed è tutto contento; quando finiamo dice: Stasera Abu (è il mio nome in Palestina) mangia con noi! E così mi trovo nella tenda di Yusef, con tutti i bambini: li conto, sono undici; ma quanti siete? Siamo quattordici in famiglia, mi spiega una ragazzina; il baba ha due mogli, sei di una e cinque dell’altra, sette femmine e quattro maschi; ma fate una squadra di calcio!
Comunque il mio arabo era bastato per arrivare fino lì; arriva Yusef che si è lavato, arriva un bellissimo riso condito con cavolfiore.
Ma il the da me, manda a dire Jamal; così dopo un po’ saluto e ringrazio e torno alla solita tenda, quella dell’aria gelida e delle stelle; questa volta Amer, il maschio maggiore (quattro anni), che mangia con gli uomini, che esce con le pecore, viene messo a dormire vicino a me, se no poi si arrabbia, mi spiega sua mamma. Constato che devono essere collegati i pannelli solari che sono all’accampamento principale: la tenda-cucina ha la luce, le pecore hanno la luce…
Come ormai è d’abitudine, la mattina dopo mi avvio a piedi; abbiamo concordato con Jamal che quando decide di raccogliere le olive, mi chiama e io andrò. Bella camminata per le colline aride; fino a che qualcuno manda a dire a un “service” che c’è uno da raccogliere; così mi vedo arrivare un mezzo, dopo circa 50 minuti di cammino; poi un altro “service”, da Yatta a Hebron; altri bottegai, altre chiacchiere; siediti, dove vai; da dove vieni, cosa fai al tuo paese, cosa fai qui; cose che riesco a dire. Ma li lascio che devo andare a fare il bucato!, anche questo detto in arabo.
Arriva il giorno delle manifestazioni, dopo che giovedì pomeriggio c’era stato il nostro meeting organizzativo, seguito per me dalla lezione arabo-italaiano. A Nabi Saleh non ci sarebe stata manifestazione, ma solo una festa serale per i detenuti rilasciati; così decido di andare a Kufr Qaddum, e di restare poi a Nablus. Il paese e’ a soli sette km da Nablus; se solo potessero percorrere la strada principale, ma gliel’hanno chiusa, pare fin dal 2003; cos[ devono fare un lungo giro per le campagne, percorrendo 25 km al posto di 7! Comunque da qualche mese hanno ripreso le manifestazioni, avviandosi lungo la strada vietata, alle cui spalle si vede subito la colonia che i soldati devono proteggere. Kufr Qaddum è un bellissimo paese di 400 abitanti, arrampicato in cima alla sua collina, ma appetito anche dai coloni, che per ora hanno preso la collina vicina. Oggi controllando sulle notizie, avremmo scoperto che già una sentenza della loro corte suprema, da’ ragione ai palestinesi, i quali potranno usare la strada, ma dopo il 2012, per questioni di sicurezza. Oggi i soldati sono vicinissimi al paese, hanno messo un reticolato spinato per fermarci. Al primo sasso lanciato attaccano subito e raramente ho visto la determinazione e la cattiveria di oggi. Sono subito candelotti lacrimogeni sparati ad alzo zero; ce li vediamo passare vicinissimo.
Al terzo colpo c’e’ un ragazzo vicino a me colpito peggio di me l’altra volta.
Dopo avere liberato un po’ di strada a forza di lacrimogeni, i soldati che prima si erano aperti a ventaglio, coprendo anche le campagne, ora si riuniscono su fronte unico e avanzano per “ripulire” il paese: è proprio l’impressione che ne ho ricavato. I ragazzi un po’ tirano sassi e un po’ arretrano; noi siamo con loro; a un certo punto mi muovo come altre volte sul lato, per fare foto alla loro avanzata; ma mi hanno preso di mira: due soldati mi puntano ad armi spianate; ma siete pazzi? continuano ad avanzare, giro dietro un muretto; continuano ad avanzare; finchè partono correndo con un urlo.
I miei due amici gridano: Corri Abu che ti prendono! C’è voluto uno scatto da centometrista per sfuggirgli! Poi per fortuna sono troppo carichi, e
se mancano la prima presa non ti raggiungono più!
Hanno continuato a forza di lacrimogeni, veramente avanzando per mandare via tutti; e noi dobbiamo iniziare a scendere dalla collina; poi si ritirano e tiriamo il fiato; i feriti sono stati messi nella moschea, i lacrimogeni non appestano più l’aria.
Proviamo a riprendere la strada, i ragazzi fanno il segno di vittoria; ma sono ancora lì e appena vedono che risaliamo, interrompono la ritirata per tirarci ancora qualche lacrimogeno. I ragazzi vengono invitati a smettere; se il lancio di lacrimogeni continuasse in paese, si rischia di perdere l’appoggio della gente; quindi meglio fermarsi, la nostra parte l’abbiamo fatta.
Così scendiamo in una casa a trovare due ragazze che sono rimaste ferite in un incidente stradale, probabilmente causato da coloni; e anche qui caffè per tutti, biscotti e cola; le ragazze sono con le due ferite, gli uomini a discutere in sala. Tutti hanno partecipato al corteo, e continueranno la lotta; i soldati sono andati nelle campagne, come ai tempi dei fascisti: per punizione della manifestazione obbligo di interrompere la raccolta delle olive, e domani sarà vietato.
I nostri ospiti dicono, anche così non ce ne frega niente; eravamo in questa terra prima degli inglesi e di tutti, non molle remo.
Poi un altro discorso: solo la lotta paga; guardate quante chiacchiere fa Abu Mazen, non ottiene niente; Hamas invece con un prigioniero ha
ottenuto 1027 liberazioni. Ed è evidente che è così: solo la lotta paga!
Poi prendiamo ancora un mezzo e ci facciamo portare all’ospedale: dobbiamo andare a trovare una donna che due giorni fa ha avuto la sua disavventura con i coloni: raccoglieva olive con i figli, purtroppo il marito era altrove. I coloni gli mandano contro il famoso cinghiale: lei scappa,
inciampa, cade e si rompe una caviglia: corri mamma e lei riparte, ricade, rompe anche l’altra gamba; alla fine i ragazzi riescono a portarla via; ora è in ospedale con due gambe ingessate!
Siccome sono a Nablus e il collegamento internet è molto lento, ho già caricato un po’ di foto; continuerò a metterne.
C’è anche un video di oggi, che sarà su youtube, credo come Kufr Qaddum 21-10-2011, forse la mia fuga la riesco a mettere con le foto: ecco il link
https://picasaweb.google.com/112424888208586679688/1522ottobre#
Nablus 21-10-2011 – Claudio
Lettera n.15
Dopo l’ultima manifestazione sono rimasto a Nablus, per dedicare quattro giorni alla raccolta delle olive. E’ sempre complicato organizzarsi; ci sono intorno una decina di villaggi con cui siamo in contatto e a cui è stata offerta la disponibilità di collaborazione, ma ogni giorno bisogna telefonare al nostro contatto in loco, per sapere se raccolgono, cioè se in quella zona sono autorizzati a raccogliere. Così sembra che ogni tanto Thom, il ragazzo inglese che tiene il coordinamento per la zona, non capisce più niente… Certi giorni siamo a Nablus in 18, senza neanche il posto per dormire; certi giorni solo 8, e allora non sa dove mandare l’aiuto! La forma è diventata che ci si presenta presto e si va a raccogliere olive insieme ad una famiglia; almeno cerchiamo di controllare che si lavori in una zona a rischio, ma perché una famiglia piuttosto che un’altra? Alla fine sembra che siamo solo mano d’opera a basso costo! Io ho insistito che, quando possibile, si giri anche dagli altri che si vedono raccogliere; qualche volta è stato fatto, qualche volta no, perché è meglio aiutare una famiglia a finire, finchè sta andando bene, senza incursioni di coloni.
Quanto a me ho cercato di cambiare sempre, e di mettere più tempo a spiegare come vanno potati gli alberi; qui raccogliere è complicatissimo, perché ci sono olive dappertutto, ma troppo rade; non è proporzionato il tempo di raccolta al risultato; ma a loro va bene così, perché tutti fanno
così, e spesso è il loro unico lavoro con reddito; per la potatura e la pulizia non ben fatta, continuano a scusarsi con il limite che viene messo al loro lavoro; se vengo troppo a lavorare mi cacciano!
Si raccolgono anche le olive da terra! Prima non capivo, ma poi mi hanno spiegato che si vendono a metà prezzo, per le fabbriche di sapone: è una antica tradizione palestinese fare il sapone dall’olio d’oliva, e continuano a comprare le olive da terra di qui e, pare olio di scarto dal resto
del mediterraneo; comunque il sapone è ottimo.
Il primo giorno torno a Burin, paese in cui ero già stato l’altra settimana; e i bambini che ci accompagnano alle olive si ricordano: Abu! Abu! Quello che sta in equilibrio sulla testa! (ogni tanto mi esibisco per gruppi di bambini). Sono della famiglia vicino a dove avevo raccolto olive.
Questa volta saliamo molto in alto, c’è vicino solo l’insediamento dei coloni; ma per fortuna non succede niente.
Il secondo giorno, in un paese nuovo, Yatma, dove raccogliamo con due famiglie diverse, sempre vicinissimi ad una colonia senza ancora recinzioni e con case in costruzione. Terzo giorno di nuovo a Burin, con un uomo simpaticissimo che avendo un vecchio trattore è addetto a molti degli spostamenti; lui, dopo le olive di terra in un posto ci porta in un altro, dove è tutto fiero delle olive che ci sono, ma sono sempre rade!
L’ultimo giorno in un paese, Beit Furik, dove sono autorizzati a raccogliere, dopo la cacciata di due giorni prima; delle balze sassose molto belle, che salgono su una collina, vicinissima ai coloni. Spesso la cosa più bella è la colazione insieme o, quando succede, la cena. E’ così bello il loro modo di preparare e offrire, humus, salsine e pomodori a colazione, mentre a cena siamo al pollo con riso chiamato Matluba.
Due ragazzi, Chris e Anders, hanno affittato una macchina israeliana e hanno voluto fare un tour a visitare delle colonie. Si presentavano ai cancelli con una balla: vogliamo vedere come è bello qui, sogniamo di venire anche noi… Ma uno è pieno di tatuaggi, in macchina poi avevano anche roba sospetta; comunque solo una volta hanno avuto paura di andare in guai seri, nella colonia più cattiva. Dentro le colonie girano tutti armati, l’unico discorso verte sulla paura di venire attaccati! Ma come possono vivere così: occupanti, religiosi, arrabbiati, spaventati e senza nessuna allegria!
Ci sono state un po’ di notti agitate a Sheik Jerrah! Venerdì sera (21-10), avevano cominciato a tirare acqua a ripetizione sui nostri volontari. Domenica sera è la volta di tre ragazze svedesi che, un po’ troppo allegramente, si mettono a scrivere Free Palestine sui pannelli di legno che i coloni hanno messo a protezione del loro divano esterno; atto abbastanza provocatorio, soprattutto fatto alle nove di sera, quando sono tutti in giro. Anche io avevo scritto con lo spray un grande Free Palestine, ma lo avevo fatto alle cinque di mattina, dopo aver controllato che tutti dormivano! Quindi i nostri occupanti chiamano la polizia, che le trova occupate a scrivere; arrestate! Finiscono abbastanza rudemente alla stazione di polizia; dopo un po’ le mettono fuori con obbligo di ripresentarsi alle nove di mattina. E così fanno: una viene lasciata per ora fuori, ma poi si dimenticano di lei; ma le altre due sono state trattenute tutto il giorno, portate ad un’altra stazione, fotografate e raccolte le loro
impronte digitali; si spera che per una cosa così stupida non incorrano in conseguenze!
Poi di nuovo una notte tranquilla, con i coloni che a un certo punto invitano ad andare a dormire, perchè anche loro si ritirano… E poi da martedì a mercoledì tocca a me con i due ragazzi italiani. Io sono rientrato da Nablus a Ramallah, dopo avere lasciato i miei raccoglitori a Beit Furik, alla fine della colazione (alle 12); un passaggio alla casa di Nablus a lavarsi e cambiarsi; è incredibile quanto ci si sporchi, con terra e polvere appiccicate dall’olio delle olive! Pomeriggio dai miei amici Neta e Nizar a studiare, carne riso e yogurt a metà studio; e poi raccolgo i due e andiamo a Sheik Jerrah. Dormo dalle dieci a mezzanotte, poi torno alla tenda e va un altro; poco prima delle due ci dicono, shhh, andate a dormire; va bene, dico io, spegnete, chiudete e ce ne andiamo anche noi; invece mi chiama vicino alla finestra (ma ho capito il trucco) e tira acqua sporca! Una volta, poi non so quante altre; esce uno di loro, ma io ho preso una scopa loro e lo minaccio, ma anche questo manovra per portarmi sotto tiro del suo amico, che però tira acqua e prende lui!
Poi tirano bidoni e bottiglie, una bottiglia di plastica piena di olio da lumini; il vicino ha sentito il trambusto e chiama la polizia: riesce a farli venire, ma non fanno niente; perché l’altra sera avete fermato le ragazze che scrivevano e non fate niente a questi che tirano cose? Per lo meno gli stupidi coloni si ritirano in casa e non osano più uscire; io giro davanti alle loro finestre con un bastone in mano: provate a mettere fuori il naso e vedrete! Ma non osano, anche se ad un certo punto provano a bisbigliare, ma non gli diamo conto; verso le quattro ci ritiriamo, dopo avere versato l’olio che ci hanno lanciato, davanti alla loro porta! Pare che il giorno dopo hanno pulito bene, perchè avrebbero fatto una festa provocatoria in strada, con musica ad alto volume in un quartiere palestinese!
Ad Hebron tutto procede; ora i soldati stanno provocando anche noi: vogliono il passaporto ad ogni passaggio; abbiamo deciso di rifiutare, a meno che non chiamino la polizia (a cui siamo obbligati a consegnarlo, mentre ai soldati no); così c’e’ sempre un po’ di confusione. Intanto la scuola rifunziona, un po’ di maestre passano il metal detector e un po’ fanno il giro lungo; direi: ne’ vincitori ne’ vinti!
Giovedì pomeriggio cucino un risotto ai funghi da Neta e Mizar, e poi lezione arabo e italiano: ora che e’ ora di partire comincio a “quagliare” con l’arabo!
E arriva il venerdì delle manifestazioni: ritorno a Nabi Saleh, anzi ci arriviamo in tanti, anche se purtroppo la partecipazione collettiva e’ un po’ scarsa, dopo l’interruzione di venerdì scorso. Il corteo si distingue sempre per la presenza delle donne; e’ l’unico paese in cui c’e’ la loro presenza, e per giunta così agguerrita. I soldati dietro la curva ci ricevono con la solita pioggia di lacrimogeni. C’e’ pronto anche il camion con la skunk water, ma la prima prova, avanzando in velocità verso di noi, trova il vento contrario e smettono presto. Poi pioggia di lacrimogeni mentre il camion si ritira in retro, altrimenti verrebbe bombardato di sassi! Ma dopo tre o quattro scariche di lacrimogeni, e quindi dopo solo un’ora di scambi, decidono di ritirarsi intorno alla torretta; compiono questa operazione, inversione delle jeep e rientro, coperti da lancio di skunk water per impedire ai ragazzi di avvicinarsi a tirare pietre. E anche da là la battaglia non e’ durata molto. Forse c’erano anche meno shebab del solito, non riescono a dividersi in due fronti. I soldati fanno ogni tanto il tiro al bersaglio con i rubber bullet e ogni tanto i tiri di lacrimogeni, anche se ora molti tiri sono rasenti; i ragazzi fanno a gara a rilanciargli i lacrimogeni; non mi pare che ci siano stati feriti. Poco dopo le tre e’ tutto finito.
Oggi, sabato, invece, siamo andati in un posto nuovo; il contatto e’ uno studente di odontoiatria all’Universita’ di Sassari, che e’ conosciuto dalla mamma di uno dei due italiani. E’ di Kufr Qassem, paese palestinese subito al di là della frontiera. Viene a prenderci con la macchina del fratello ad una rotonda a cui ci facciamo lasciare dal bus per Nablus. Passaggio della frontiera molto rompiscatole; consegna dei documenti, passaggio delle borse e di noi al metal detector; interrogatorio: perchè siete insieme? Cosa vi lega? E li mi viene l’idea: tre studenti e un professore (come sono cambiato oggi!), diretti a casa del palestinese; se lo bevono e ci fanno andare! Due km dopo ecco il paese, solo palestinese, pur all’interno dello stato di Israele.
Il paese e’ strapieno di gente: e’ la commemorazione di una strage spaventosa: qui, nel 1956, hanno massacrato 49 palestinesi che rientravano dal lavoro agricolo, compresi vecchi donne e bambini. I sionisti volevano obbligare i palestinesi ad andarsene, volevano una terra senza gente; in più siamo nel ’56, c’e’ la guerra con l’Egitto, la strage può passare inosservata. Decidono durante la giornata: da stasera alle cinque coprifuoco; chiunque sarà in strada dopo quell’ora verrà ucciso. Teoricamente chi e’ fuori verrà accompagnato a casa; invece vengono massacrati man mano che rientrano; qualcuno si salva: uno saltando un muretto mentre sparano, uno, ferito, correndo a quattro zampe in mezzo a un gregge che passa.
Dopo la strage, la presa in giro: vengono portati in tribunale e condannati alcuni militari per avere male interpretato gli ordini; ci saranno condanne anche a 15 e 17 anni, ma tutti saranno fuori in tre anni e con promozioni; nel ’57 l’esercito prova a fare la pace con il villaggio: un grande pranzo offerto alla cittadinanza, mentre alcuni militari sono in prigione, ma non funziona: da allora ogni anno c’e’ una grande manifestazione, che, da una decina di anni, non viene più dispersa violentemente.
Anche oggi grande corteo fino al cimitero con le lapidi; siamo gli unici stranieri, quindi una TV mi intervista. Poi andiamo al centro costruito a memoria del massacro: museo, discorsi, poesie e filmato. Finalmente a casa del nostro amico; sono cinque fratelli, tutti parlano italiano; il maggiore è stato 17 anni a Verona e ora distribuisce caffè italiano nella zona. Siamo in una casa lussuosa, ma con la solita ospitalità; oggi è la giornata di alcuni involtini con pane di casa sottilissimo, ripieni di cipolla e olio nuovo; insalata, yogurt e pollo arrosto. E poi caffè vero! Per giunta il venditore di caffè deve venire da un cliente a Ramallah, per cui ci riaccompagna continuando a raccontare le sue avventure con i check point: scopriamo che degli arabi israeliani hanno una particolare rabbia contro i soldati, dovuta anche ai loro documenti israeliani.
Anche oggi, siamo stupiti della loro gratitudine per la nostra partecipazione alle loro ricorrenze; ma siamo noi ad essere grati a loro per quello che ci trasmettono.
Claudio Ramallah 29 ottobre
2011, 55esimo anniversario del massacro di Kufr Qassem
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