Saturday, 05 November 2011 08:07 Mikaela Levin (Alternative Information Center)
L’ex prigioniero palestinese Mukhlis Burgal nella sua casa di Lod (Foto: German Krimer)
Mukhlis Burghal sorride come un bambino ogni volta che il suo cellulare suona. Ha scoperto le nuove tecnologie solo dieci giorni fa e ne è già diventato dipendente. “Me ne sono innamorato; lo porto con me ovunque vado”, confessa con un sorriso malizioso che contraddice i capelli bianchi e i quasi 50 anni d’età.
Questo palestinese dal volto gentile e lo sguardo rilassato che parla sotto l’ombra di un albero di limone e di uno di mandarino dietro la casa della sua famiglia, ha passato 24 anni, un mese e otto giorni chiuso in prigioni israeliani in tutto il Paese. Lo scorso 18 ottobre, Mukhlis è stato rilasciato insieme ad altri 476 palestinesi in cambio di Gilad Shalit, il soldato israeliano catturato da Hamas più di cinque anni fa. Non sembra né triste né arrabbiato; è ancora troppo interessato ad “assorbire” tutto: le nuove cose che ancora non conosce, le vecchie che ha dimenticato e i ricordi, che lo hanno aiutato a sopravvivere alle botte, i maltrattamenti e la rassegnazione, e che ora stanno tornando di nuovo vivi. “È come nascere ancora una volta. Questo è quello che sento: mi sento rinato”, spiega posando gli occhi per pochi secondi sul nipote di cinque anni che gioca vicino.
Nella sua prima notte da uomo libero, la casa Burghal nella città di Lod, vicino Tel Aviv, era piena di gente. Parenti, amici e vicini si sono ritrovati per festeggiare il giorno che stavano aspettando dal quell’11 settembre 1987, quando poliziotti israeliani arrestarono Mukhlis nella Città Vecchia di Gerusalemme per aver tirato una granata contro un autobus pieno di soldati israeliani. La granata non ha raggiunto il bus e nessuno è morto, ma una corte militare lo ha condannato all’ergastolo, una sentenza che 17 anni dopo è stata ridotta a 40 anni di prigione.
Ma la notte fi martedì 18 ottobre nessuno ricordava quei brutti momenti. “La parte più impressionante e gioiosa è stata rivedere la gente. La mia famiglia, tutti i residenti della mia città, i cittadini arabi e quelli che mi sono vicino, in tutto il Paese. Ho sentito e visto la felicità negli occhi di queste persone; questo è quello che mi ha colpito di più e che mi ha reso davvero felice”, ricorda e mentre parla i suoi occhi infervorati si rannuvolano per le emozioni che non riesce a controllare.
Intorno a mezzanotte, la casa era ancora affollata, ma Mukhlis e due dei suoi fratelli sono usciti di nascosto per andare alla tomba del padre. Morì nel 1991 e Mukhlis non ha mai avuto l’opportunità di dirgli addio, di portare un fiore sulla sua tomba o di abbracciare la madre. Non era autorizzato a ricevere telefonate, lettere o visite oltre a quelle prestabilite di 30 minuti ogni due settimane (negli ultimi anni le visite sono state estese a 45 minuti).
Tutto è stato molto intenso ma non era ancora finito. Mukhlis aveva un altro “piccolo sogno” da realizzare. In meno di mezz’ora, tutti e tre hanno camminato a piedi nudi nella sabbia della spiaggia di Jaffa. Le stelle e la luna proiettavano luci e ombre sopra le loro teste, uno spettacolo che Mukhlis poteva solo immaginare negli ultimi 24 anni.
L’uomo che sta giocando con il suo cellulare con un timido sorriso non parla con rimpianto; non fa un appello severo e euforico in favore della lotta armata o della “rivoluzione palestinese”: “Come diventerà la mia vita? La prima cosa che voglio è passare tempo con mia madre, la voglio rendere felice, voglio stare con la mia famiglia, nella mia città, conoscerla e conoscere la gente di nuovo; voglio sentirmi di nuovo normale in questa nuova vita. Voglio visitare i miei fratelli che vivono all’estero. E poi, magari in un anno o due, pianificherò qualcosa. Per adesso non posso fare alcun piano. Non mi vedo troppo distante dalle attività della comunità”.
L’unico momento in cui Mukhlis si apre in un sorriso di gioia è quando ricorda i suoi compagni, gli amici ancora dietro le sbarre. “La cosa più difficile è sapere che non posso fare molto per loro. Dopo tanti anni di condivisione siamo diventati una famiglia, le loro famiglie sono la mia e la mia le loro”, spiega mentre guarda l’unico fratello che vive ancora a Lod e che lo ha sistematicamente visitato ogni mese nell’ultimo quarto di secolo.
Negli ultimi giorni, la sua famiglia ha conosciuto le sue sofferenze, i maltrattamenti e le privazioni che ha dovuto sopportare in prigione ed è ancora difficile per i suoi parenti ascoltare tutto questo. “Le prime domande sono le più difficile, le più dure”, dice Mukhlis prima di toccarsi la testa. “Nella mia testa ci sono 14 punti di sutura”. Durante la sua prigionia ha ricevuto altre botte: 16 punti in testa, un polmone perforato, una costola rotta e la mascella slogata. “Le torture sono diverse: le botte, l’isolamento, i gas lacrimogeni, la sospensione delle visite familiari”, recita con un distacco emozionato che rende ancora più difficile ascoltare la sua storia.
I trasferimenti da una prigione all’altra erano un’altra forma di tortura. Dentro una scatola metallico, con sedili di metalli, le mani e i piedi legati, i prigionieri viaggiano fino a otto ore fermandosi per due o tre ore in ogni prigione. Se sono fortunati, alcuni di loro sono autorizzati dalle guardie ad andare in bagno. “Il cibo viene tirato dentro il camion in buste di plastica. Io ho sempre evitato di mangiare durante questi viaggio perché siamo legati e scomodi, finisce che vomiti”, dice quasi scusandosi.
Ma forse il maltrattamento peggiore sopportato dai prigionieri palestinesi è la mancanza di assistenza sanitaria. Mukhlis ricorda tre dei suoi compagni morti durante semplici attacchi di asma e un altro contagiato dall’Aids perché il dentista della prigione aveva utilizzato un ferro vecchio. “Questo mostra quanta attenzione ci riservano”.
Nel suo personale caso, ha dovuto affrontare tre problemi medici durante la lunga prigionia; uno al ginocchio, un altro alla schiena e il terzo ai denti. Nei primi due casi, dopo aver ricevuto tutti i trattamenti prechirurgici, i medici hanno deciso che le operazioni non erano necessarie. Ora sta pianificando di andare all’estero per ricevere cure. I denti, dall’altra parte, lo hanno trascinato in una battaglia legale che lo ha lasciato con l’amaro in bocca: “Sono riuscito ad ottenere un medico da fuori, ma una volta iniziato il trattamento, lo hanno cacciato. Così non è stato terminato. Mi avevano detto che dovevo presentare una nuova richiesta e loro avrebbero studiato il mio caso di nuovo”.
Mukhlis ha migliaia di storie da raccontare della sua via in carcere; in quei 24 anni il mondo è cambiato e anche lui. È stato arrestato quando aveva 25 anni, ora ne ha 49. È entrato giovane, con tutta la vita davanti, e esce “veterano”, quelli che i prigionieri chiamano Zio. Ma ora non vuole passare troppo tempo a pensare ai tempi andati e a tutte le cose che ha perduto. Vuole viaggiare, stare con la propria famiglia e vivere normalmente; a metà della sua vita Mukhlis vuole nascere di nuovo.
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