LO STATO OCCUPATO DI PALESTINA

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Quando il Barcellona ha vinto la finale di calcio, c’erano molti più palestinesi che festeggiavano” mi hanno detto molti palestinesi il giorno dopo il riconoscimento dello stato palestinese alle Nazioni Unite. Ed era proprio quello che avevo pensato io la sera del 29 novembre, subito dopo la votazione. Ero uscita con alcuni amici per vedere il clima che si respirava nelle strade e, a parte qualche auto con la bandiera palestinese, non c’era nulla di particolare. Pochi, pochissimi festeggiamenti, considerata l’importanza dell’evento. Molti miei amici sono persino andati a letto. Addormentati la sera in un territorio palestinese e svegliati la mattina in uno stato. Sempre ed in ogni caso occupato.

Mabruk liddawla” (complimenti per lo stato). Si ride, si scherza con i palestinesi. Nessuno ci crede veramente. E non posso che capirli. Dopo anni di negoziati, di risoluzioni ONU mai attuate, dopo 65 anni di lotta, come possono ancora credere ed affidarsi alla diplomazia internazionale? Certo, si tratta di una grande vittoria diplomatica per la Palestina, ma che non può essere fine a se stessa. E anche il fatto di definire “Stato” questi bantustan divisi e spezzettati può suonare ridicolo. Dove sono i confini? Chi è rappresentato in questo stato? Che fine farà l’Autorità Palestinese? Che ne sarà di quel milione e mezzo di palestinesi all’interno dello stato di Israele? E cosa ne sarà del diritto al ritorno dei sette milioni di rifugiati? Quel diritto al ritorno riconosciuto dalla risoluzione 194, un numero così pieno di significato emotivo e simbolico che per un caso del destino si è ripresentato alla votazione all’ONU: la Palestina è il 194esimo stato al mondo.

“Ora devo spendere almeno 50 euro per cambiare il passaporto” mi dice arrabbiato un mio amico – “Cambieranno il nome dell’Autorità Palestinese, ora dovranno scrivere nel passaporto Stato di Palestina”.

“E’ una trappola, proprio come Oslo” mi dice un altro.

Lottiamo per uno stato, per il ritorno e per la libertà”, recitava uno degli striscioni appesi in piazza della Natività a Betlemme. Che brutto slogan, risultato delle ultime iniziative diplomatiche. La lotta prima di tutto deve essere per la libertà, per la fine dell’occupazione. Altrimenti, come ora, si vive sì, in uno stato, ma occupato.

Forse assieme alla storica data del 29 novembre 2012 bisogna ricordare anche quella del 30 novembre 2012, giorno in cui Israele ha deciso la costruzione di 3000 nuove unità abitative nella zona E1, proprio nell’area della Grande Gerusalemme. Costruire in E1 significa spezzare la Cisgiordania in due parti, porre definitivamente fine alla continuità territoriale e all’attuabilità dello stato palestinese. Poi si potrà parlare di Cisgiordania del nord e Cisgiordania del sud. Però intanto la Palestina è uno stato.

Ora rimane da vedere quali saranno i prossimi passi di Abbas, se accanto ad un riconoscimento formale, ci saranno dei reali tentativi di cambiamento, se c’è una vera volontà di portare Israele davanti alla Corte Criminale Internazionale, se a livello internazionale c’è un desiderio di condannare ed agire concretamente contro le continue e costanti violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.

E soprattutto bisogna ricordare che tutte queste trattative a livello diplomatico non devono svilire od emarginare lo storico ruolo della resistenza palestinese nella lotta contro la brutale occupazione israeliana. Una resistenza quotidiana e spesso silenziosa che troppo spesso viene dimenticata: nonostante l’espansione degli insediamenti e gli attacchi dei coloni, i contadini ed i pastori palestinesi continuano a coltivare la loro terra e a portare al pascolo le loro greggi; nonostante i checkpoint, i maltrattamenti e le umiliazioni, i lavoratori palestinesi continuano ad andare al lavoro; nonostante l’occupazione e la repressione, il popolo palestinese continua a sperare, a sorridere, a vivere.

 

http://storiedellaltromondo.wordpress.com/2012/12/04/lo-stato-occupato-di-palestina

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