A volte vorremmo avere, una dopo l’altra, alcune affermazioni chiare ed essenziali sulla situazione in Palestina. Ecco allora un incalzante raccolta di affermazioni della famosa giornalista israeliana AMIRA HASS, la nota giornalista israeliana Amira Hass che non perdiamo di leggere ogni settimana su Internazionale.
“La società israeliana vive dentro due normalità che si contraddicono, ma allo stesso tempo si completano. La normalità civile per cui se vieni a Tel Aviv o a Gerusalemme Est ti sembra che Israele sia un Paese normale, sia come l’Europa. E la normalità della società militarizzata, come se fosse normale, con soldati costantemente intorno a te”. Queste due normalità anormali spiegano la dissonanza cognitiva che molti israeliani vivono: “Dentro Israele sono considerati normali, ma appena si spostano all’estero sono visti come criminali”.
“E’ l’occupazione la situazione normale per la maggior parte degli israeliani. Così normale che non la vedono nemmeno più”.
“Le colonie sono diventate un sostituto del Welfare che sta scomparendo in Israele. Sussidi, attenzione all’educazione, la costruzione di case popolari finanziata dallo Stato come accadeva negli anni ’50 e ’60 nelle città israeliane, si sono spostati verso le colonie in Cisgiordania, specialmente dopo il processo di pace di Oslo, negli anni ’90”.
“Nella maggior parte dei quotidiani esistenti in Israele oggi c’è una censura interna. I direttori pensano di sapere cosa il pubblico vuole o di cosa è interessato. Sono diventati una sorta di cuscinetto tra l’informazione e i lettori. Ma oggi c’è anche la sensazione che i media debbano essere cauti. Come sempre è difficile raccontare i fatti, ma penso che siamo ancora capaci di dare la nostra opinione”.
“Alla fine, non saranno i nostri articoli a cambiare l’opinione della società israeliana, abbiamo bisogno di molto di più, specialmente riconoscendo l’ammontare dei profitti che il Paese trae dall’occupazione”.
“I territori occupati sono un laboratorio per l’industria bellica, per sperimentare tecnologie che vendiamo in tutto il mondo. Poi c’è l’acqua: se ci fosse pace dovremmo dividerla equamente e smettere di vivere come fossimo in Svizzera. Tutti gli ebrei israeliani guadagnano dall’occupazione, ma nel lungo periodo è un suicidio. Non possiamo vivere in questa regione se gli arabi ci vedono come eredi dei crociati”.
“Israele si dice parte di un processo di pace, ma i fatti mostrano il contrario. Da 20 anni le politiche israeliane, dagli insediamenti alle restrizioni alla libertà di movimento dei palestinesi, stanno rendendo di fatto impossibile la creazione di due Stati. La proposta che fanno gli Stati Uniti coincide, praticamente, con l’idea che ha Netanyahu di uno stato palestinese: un territorio piccolo e frammentato. Non si parla dei confini del 1967, dell’unità tra Gaza e Cisgiordania, di Gerusalemme Est capitale”.
Hamas non ha mai creduto alle offerte di pace e finora ha avuto ragione. Come tutti i movimenti religiosi, misura il tempo in secoli. Eppure, ha bisogno del sostegno della popolazione. L’Autorità palestinese e l’Olp dovrebbero cercare di offrire alle persone un’alternativa credibile e più umana. E comunque, sia Hamas sia Fatah dipendono dall’estero: la prima dall’Iran e dagli Stati arabi, la seconda dagli aiuti occidentali.
L’ossessione della sicurezza poggia su una base reale, ma la macchina della sicurezza ha un continuo bisogno di alimentarsi. Se non ci fossero stati in gioco enormi profitti e interessi, Israele avrebbe accettato l’offerta di pace degli stati arabi otto anni fa.
Le radici del Sionismo sono colonialiste, è un movimento europeo del Diciannovesimo secolo, ma è anche figlio della persecuzione degli ebrei. La creazione dello Stato di Israele è inseparabile dall’Olocausto. C’era una necessità storica di creare non uno Stato ebraico, ma uno Stato per gli ebrei.
E’ normale che ci siano colonie dappertutto. Da quando gli accordi di Oslo hanno dato l’impressione che ci sia uno stato Palestinese, la gente non si sofferma sui “dettagli”, tipo quanta terra è rimasta per i palestinesi. C’è ormai oltre mezzo milione di persone che vive nelle colonie, e anche questo sembra normalissimo.
L’esercito è tutto. La maggioranza della popolazione vede l’industria bellica come un’esigenza patriottica, la pietra angolare su cui poggia il futuro di Israele. La politica contro i palestinesi non è mai messa in discussione e l’esercito è una parte fondamentale della società e dell’identità israeliana. Io rappresento una minoranza che la pensa diversamente.
La maggioranza degli ebrei israeliani è a favore della politica del Governo verso i palestinesi. Però non è una società fascista: c’è discriminazione istituzionalizzata, ma esistono esempi di rapporti cordiali tra palestinesi e israeliani.
Ci vorrebbe più creatività. L’Autorità palestinese potrebbe cominciare a rifiutare gli aiuti dall’estero, che legittimano lo status quo. Il movimento internazionale potrebbe tentare nuovi boicottaggi. In Israele, io sono molto fiera dei miei amici attivisti che protestano contro l’occupazione in modo molto versatile. Sono una minoranza, certo, ma mostrano ai palestinesi che non tutti gli israeliani sono soldati o coloni. In genere si tratta di donne.
Soprattutto le donne israeliane sono attive. Le donne di Machsom Watch vanno ai checkpoint tre, quattro volte la settimana, da dieci anni, e riferiscono tra le mura di casa le violenze di cui sono testimoni. Ci sono belle signore di mezza età che vanno ad assistere ai processi nei tribunali militari. E la scorsa estate 20 donne hanno violato la legge per portare un gruppo di bimbi e madri palestinesi a divertirsi sulla spiaggia. Tutti noi abbiamo privilegi, come membri del popolo dominante: loro li usano per lottare contro la discriminazione.
Il giornalista deve tenere d’occhio il potere. Quando ho iniziato, la Civil Administration, si lamentò dei miei articoli e il direttore mi disse: “Significa che stai lavorando bene”. Io comunque non sono obiettiva. Sono contro l’occupazione, e lo dichiaro.
L’importante è non fermarsi. Ricordo le parole di un attivista di Solidarność: “Non avremmo mai pensato di vivere abbastanza da vedere crollare il regime – mi disse – ma se lotti contro l’ingiustizia non lo fai per il risultato. Lotti perché bisogna lottare”.
Tratto da: Mikaela Levin (Alternative Information Center), 1 dicembre e Giulia Bondi (Internazionale), 10 dicembre.
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