L’operazione israeliana a Jenin ha provocato l’attacco terroristico che doveva sventare

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Di Gideon Levy

Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto dall’inglese da Beniamino Rocchetto

Cosa state pensando? Che l’uccisione di 146 palestinesi in Cisgiordania nel 2022, secondo B’Tselem, la maggior parte dei quali non combattenti, sarebbe stata accettata in silenzio? Che l’uccisione di circa 30 persone questo mese fino ad oggi non avrebbe provocato reazioni?

Che i residenti del campo profughi di Shoafat, maltrattati ogni giorno e ogni notte da soldati e agenti della Polizia di Frontiera che invadono le loro case in strane operazioni, dalle confische di denaro agli arresti notturni, distruggendo le loro proprietà e la loro dignità, ringrazino i propri aguzzini? Che qualcuno il cui nonno è stato assassinato da un colono e il cui amico di 17 anni è stato ucciso la scorsa settimana dalla Polizia di Frontiera non si sentisse legittimato a commettere un attacco?

E cosa pensavano i comandanti della folle operazione di giovedì nel campo profughi di Jenin? Qual era lo scopo dell’operazione, a parte una dimostrazione di forza? Sopprimere il terrorismo? Ne ha solo alimentato le fiamme.

Sapevano che facendo irruzione nel centro dell’accampamento ne sarebbe derivato un grande spargimento di sangue. Le Forze di Difesa Israeliane e l’Unità Speciale Antiterrorismo della polizia non possono più invadere questo campo coraggioso e determinato senza versare sangue. Sapevano anche che nessun “enorme attacco terroristico all’interno di Israele” è stato sventato dall’operazione, come ha proclamato venerdì il portavoce dell’IDF noto anche come Yedioth Ahronoth (il quotidiano). Hanno invaso il campo la mattina, mentre i bambini stavano andando a scuola, senza remore. Fortunatamente, almeno le scuole dell’UNRWA quel giorno erano in sciopero.

“Se il Maggiore Generale Yehuda Fuchs, Capo del Comando Centrale, avesse saputo che questo sarebbe stato il risultato dell’operazione, non l’avrebbe approvata”, ha detto il giornalista Alon Ben-David al notiziario di Canale 13. E cosa pensava il Generale, che ci fosse un’altra opzione? Dopotutto, tutti sapevano che l’operazione Jenin avrebbe scatenato una pericolosa ondata di violenza. Non è possibile invadere il campo profughi di Jenin senza un massacro, ho scritto qui dopo la mia visita circa tre settimane fa (Haaretz del 12 gennaio*), e nessun massacro nel campo potrebbe passare senza ritorsioni.

[* https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1330018081124376&id=100023485904130]

I comandanti militari possono aver pensato di sventare attentati terroristici, ma hanno alimentato una nuova ondata di attacchi e lo sapevano. Ne consegue, quindi, che non solo a Jenin, ma indirettamente anche a Gerusalemme, il sangue dei morti è sulle mani di coloro che hanno ordinato l’operazione nel campo di Jenin.

Ancora una volta, Israele raccoglie quello che ha seminato. Non c’è altro modo per descrivere la catena di eventi. Oggi nel campo profughi di Jenin ci sono dozzine di giovani uomini armati disposti a sacrificare la propria vita. Uccidere alcuni di loro non diminuisce la determinazione degli altri. Jenin è un campo profughi speciale, il cui spirito combattivo oggi può essere eguagliato solo nella Striscia di Gaza. La militanza del campo è cresciuta nei suoi vicoli assieme ai suoi abitanti consapevoli che la Patria gli era stata tolta e condannati a una vita di miseria. La tortura in corso sotto forma di uccisioni quasi giornaliere negli ultimi mesi in Cisgiordania non poteva che portare agli attacchi di Neve Yaakov e Silwan a Gerusalemme Est.

Il fatto evidente che entrambi gli attacchi sono avvenuti negli insediamenti non può essere ignorato. Non c’è differenza tra Neve Yaakov e la Città di Davide, tra Esh Kodesh e Havat Lucifer. Sono tutti nei Territori Occupati, tutti ugualmente illegali secondo il diritto internazionale, anche se Israele ha sviluppato una propria concezione del concetto di diritto.

Anche ciò che viene dopo è nelle mani di Israele. È dubbio che una terza Intifada sia inevitabile, ma qualsiasi grandiosa operazione di vendetta israeliana getterà solo benzina sul fuoco. Qualsiasi punizione collettiva non farà che aggravare la situazione, anche se soddisfa la sete di vendetta della destra.

Arrestare 42 membri di una famiglia? A che scopo, se non per soddisfare questa perversione?

Radere al suolo la casa del colpevole? Dopo tutto, la precedente demolizione a Shoafat, che comprendeva un’invasione del campo da parte di non meno di 300 agenti di polizia, la devastazione e l’uccisione di un innocente ragazzo di 17 anni, possono solo aver spronato il residente del campo Alkam Khairy a prendere la pistola venerdì sera e andare a uccidere i coloni a Neve Yaakov, lasciando Israele scioccato solo dalla crudeltà dei palestinesi.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

L’operazione israeliana a Jenin ha provocato l’attacco terroristico che doveva sventare

Di Gideon Levy

Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto dall’inglese da Beniamino Rocchetto

Cosa state pensando? Che l’uccisione di 146 palestinesi in Cisgiordania nel 2022, secondo B’Tselem, la maggior parte dei quali non combattenti, sarebbe stata accettata in silenzio? Che l’uccisione di circa 30 persone questo mese fino ad oggi non avrebbe provocato reazioni?

Che i residenti del campo profughi di Shoafat, maltrattati ogni giorno e ogni notte da soldati e agenti della Polizia di Frontiera che invadono le loro case in strane operazioni, dalle confische di denaro agli arresti notturni, distruggendo le loro proprietà e la loro dignità, ringrazino i propri aguzzini? Che qualcuno il cui nonno è stato assassinato da un colono e il cui amico di 17 anni è stato ucciso la scorsa settimana dalla Polizia di Frontiera non si sentisse legittimato a commettere un attacco?

E cosa pensavano i comandanti della folle operazione di giovedì nel campo profughi di Jenin? Qual era lo scopo dell’operazione, a parte una dimostrazione di forza? Sopprimere il terrorismo? Ne ha solo alimentato le fiamme.

Sapevano che facendo irruzione nel centro dell’accampamento ne sarebbe derivato un grande spargimento di sangue. Le Forze di Difesa Israeliane e l’Unità Speciale Antiterrorismo della polizia non possono più invadere questo campo coraggioso e determinato senza versare sangue. Sapevano anche che nessun “enorme attacco terroristico all’interno di Israele” è stato sventato dall’operazione, come ha proclamato venerdì il portavoce dell’IDF noto anche come Yedioth Ahronoth (il quotidiano). Hanno invaso il campo la mattina, mentre i bambini stavano andando a scuola, senza remore. Fortunatamente, almeno le scuole dell’UNRWA quel giorno erano in sciopero.

“Se il Maggiore Generale Yehuda Fuchs, Capo del Comando Centrale, avesse saputo che questo sarebbe stato il risultato dell’operazione, non l’avrebbe approvata”, ha detto il giornalista Alon Ben-David al notiziario di Canale 13. E cosa pensava il Generale, che ci fosse un’altra opzione? Dopotutto, tutti sapevano che l’operazione Jenin avrebbe scatenato una pericolosa ondata di violenza. Non è possibile invadere il campo profughi di Jenin senza un massacro, ho scritto qui dopo la mia visita circa tre settimane fa (Haaretz del 12 gennaio*), e nessun massacro nel campo potrebbe passare senza ritorsioni.

[* https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=1330018081124376&id=100023485904130]

I comandanti militari possono aver pensato di sventare attentati terroristici, ma hanno alimentato una nuova ondata di attacchi e lo sapevano. Ne consegue, quindi, che non solo a Jenin, ma indirettamente anche a Gerusalemme, il sangue dei morti è sulle mani di coloro che hanno ordinato l’operazione nel campo di Jenin.

Ancora una volta, Israele raccoglie quello che ha seminato. Non c’è altro modo per descrivere la catena di eventi. Oggi nel campo profughi di Jenin ci sono dozzine di giovani uomini armati disposti a sacrificare la propria vita. Uccidere alcuni di loro non diminuisce la determinazione degli altri. Jenin è un campo profughi speciale, il cui spirito combattivo oggi può essere eguagliato solo nella Striscia di Gaza. La militanza del campo è cresciuta nei suoi vicoli assieme ai suoi abitanti consapevoli che la Patria gli era stata tolta e condannati a una vita di miseria. La tortura in corso sotto forma di uccisioni quasi giornaliere negli ultimi mesi in Cisgiordania non poteva che portare agli attacchi di Neve Yaakov e Silwan a Gerusalemme Est.

Il fatto evidente che entrambi gli attacchi sono avvenuti negli insediamenti non può essere ignorato. Non c’è differenza tra Neve Yaakov e la Città di Davide, tra Esh Kodesh e Havat Lucifer. Sono tutti nei Territori Occupati, tutti ugualmente illegali secondo il diritto internazionale, anche se Israele ha sviluppato una propria concezione del concetto di diritto.

Anche ciò che viene dopo è nelle mani di Israele. È dubbio che una terza Intifada sia inevitabile, ma qualsiasi grandiosa operazione di vendetta israeliana getterà solo benzina sul fuoco. Qualsiasi punizione collettiva non farà che aggravare la situazione, anche se soddisfa la sete di vendetta della destra.

Arrestare 42 membri di una famiglia? A che scopo, se non per soddisfare questa perversione?

Radere al suolo la casa del colpevole? Dopo tutto, la precedente demolizione a Shoafat, che comprendeva un’invasione del campo da parte di non meno di 300 agenti di polizia, la devastazione e l’uccisione di un innocente ragazzo di 17 anni, possono solo aver spronato il residente del campo Alkam Khairy a prendere la pistola venerdì sera e andare a uccidere i coloni a Neve Yaakov, lasciando Israele scioccato solo dalla crudeltà dei palestinesi.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

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