“Il sostegno degli Stati Uniti ad Israele è incrollabile.
Il nostro patto è infrangibile.
L’impegno americano per la sicurezza d’Israele è d’acciaio.”
Presidente Obama, 21 maggio 2011
Nel giro di due minuti la notizia veniva battuta da tutte le agenzie del mondo e una di queste era convinta di aver così sintetizzato la realtà dei fatti: “E’ l’ora della pace!” Ma questa professione di fede che giura fedeltà assoluta a qualunque decisione più o meno criminale di Israele, è solo l’ultima pietra tombale sul processo di pace, posta con consapevole lucidità dal presidente Obama.
Certo, chi di voi è rimasto al primo titolone: “Obama pretende da Israele il ritiro ai confini del 1967”, chi non ha potuto seguire tutti i discorsi di queste ore, distinguendo le parole dell’uno o dell’altro leader, di Obama di fronte al mondo, di Netanyahu di fronte ad Obama, di Obama e Netanyahu di fronte alle lobby ebraiche e -dulcis in fundo- di Netanyahu di fronte al Congresso americano, chi come tutti noi ha bisogno di capire bene cosa hanno detto veramente, fatica a farne una sintesi, mentre tutti intuiamo che entrambi i leader dall’amicizia “incrollabile”, “infrangibile”, “d’acciaio”, la pace proprio non la vogliono.
Per aiutarci a capire quello che veramente accade, stavolta non ci basta però questo Editoriale. Cominciate allora a leggere l’analisi sul discorso di Obama in “A VOCE ALTA”.
Ci dispiace deludere i numerosi lettori che si erano illusi, forse ricordando il discorso del Cairo del 2009, una svolta storica, appunto: “l’ora della pace”.
Con arte oratoria Obama ha snocciolato tutti i suoi NO ai palestinesi insieme ad una timida e imbarazzata richiesta di maggior “generosità” ad Israele perchè restituisca agli ostinati palestinesi almeno qualche metro della loro terra e appena qualche parvenza della libertà tanto agognata.
Ma il discorso di Obama non basta ancora per capire la situazione.
Mentre a Washington Obama elencava uno dopo l’altro questi NO: NO al ritiro delle colonie, NO ad uno stato palestinese sovrano in grado di difendersi, NO al diritto al ritorno, NO a Gerusalemme capitale dei due stati, NO ad una simbolica proclamazione della Palestina da parte dell’ONU ecc., alla stessa ora, il 19 maggio alle 18.00, “ora italiana”, a Roma in una sala della Camera dei Deputati anche BoccheScucite era stata invitata alla presentazione ufficiale della Freedom Flottilla, missione nonviolenta di quasi venti navi che, nella perfetta legalità, si preparano a salpare da porti diversi di tutta Europa: vogliono ricordare ad Obama, a Netanyahu e al mondo che nei loro discorsi si sono dimenticati… una parte di Palestina, la prigione della Striscia di Gaza sotto assedio israeliano. Per noi, in particolare, la notizia è che il governo italiano “farà tutto il possibile per impedire la partenza della nave italiana”.
Ma anche questo forse non basta per farsi un’idea dei fatti.
Pochi sanno, infatti, che nello stesso giorno, alla stessa ora, questa volta “ora di Gerusalemme”, le autorità israeliane davano un’altra risposta all’inossidabile amico americano: l’ennesima firma governativa alla colonizzazione e alla distruzione della Palestina veniva sventolata sotto gli occhi del presidente Usa attraverso un nuovo permesso di costruzione di altri 1.550 nuovi alloggi negli insediamenti illegali di Pisgat Zeev e Har Homa.
Il segnale arrivava direttamente ad Obama, che si era permesso di tirar fuori dall’armadio lo scheletro degli innominabili “confini del ’67”, e la parola “occupazione” che nessun “amico di Israele” si permette di usare: “Non ci può essere vera pace con un’occupazione permanente.”
Nel giro di poche ore, però, tutto si sistema. Lo testimonierà su Haaretz Gideon Levy: “Netanyahu può dormire sonni tranquilli. Nessun discorso di Obama fermerà la colonizzazione e l’occupazione, cominciando dai prossimi 1500 nuovi appartamenti nelle colonie di Gerusalemme. Il peso di un discorso come quello di Obama si misura da quello che accadrà dopo il discorso. State tranquilli, non succederà nulla. Appena terminato il discorso del re, il re appare già nudo. Tutto come prima. Come sempre. Stiano tranquille anche le lobby ebraiche: non accadrà nulla” (Gideon Levy, Haaretz, 20 maggio)
E così esattamente avverrà anche nelle ore successive, questa volta all’ora di Washington”. Obama sa che per evidenti motivi di sopravvivenza politica, stavolta deve stare più attento con le parole per evitare che le lobby ebraiche dipingano un Obama contrario alle colonie e all’occupazione. Eccolo allora correre ai ripari e sembra che nel giro di poche ore gli siano stati dati i suggerimenti giusti: “Devo chiarire che nel mio discorso non volevo dire niente di nuovo…il mio discorso ha avuto dei fraintendimenti”.
Se arrivassero davvero i suggerimenti giusti al presidente e, per capire veramente come stanno le cose, lo convincessero di prendersi mezza giornata e, senza annunciarlo ai giornali, con un aereo andasse a trovare una famiglia palestinese qualsiasi, per esempio come gli Awwad nel villaggio di Tuba. Allora forse capirebbe cosa dire ad Israele e al mondo dell’attuale nakba palestinese. Certo, dovrebbe usare quel tempo ascoltare e guardare l’oppressione con i suoi occhi (leggi LENTE D’INGRANDIMENTO). E dopo aver ascoltato il racconto dell’ultima aggressione dei coloni al gregge della famiglia Awwad, le sassate e i vandalismi, scoprirebbe che alla stessa ora stanno accadendo aggressioni ben più gravi, uccisioni e bombardamenti.
Ma non ci avevano detto che questa era l’ora della pace?
Ecco che in quello stesso momento, “ora israeliana”, l’ex presidente della Knesset Burg e altre venti personalità dello Stato ebraico capiscono che non possono tacere e firmano subito un Appello che critica entrambi, Obama e Netanyahu: “E’ un momento decisivo. Il fallimento della comunità internazionale e in primo luogo degli Stati Uniti di rilanciare i negoziati evidenzia una realtà innegabile e sconcertante: la pace è stata presa prigioniera dal “processo di pace”. Resta un’unica soluzione: chiedere all’Onu il riconoscimento unilaterale dello stato palestinese”.
Ma ormai è troppo tardi. Le ultime parole per farci capire… tutto, la ha pronunciate Netanyahu, “ora di Washington”. Anche lui, come l’amico ritrovato Obama, si presenta al Congresso americano con un elenco di NO: NO ai confini del 67, NO a mettere in pericolo il nostro piccolo territorio, NO alla Valle del Giordano senza il nostro controllo militare, NO ad un esercito per il futuro stato palestinese, NO ad Hamas come interlocutore, NO a Gerusalemme capitale divisa in due.
E qui finalmente, capiamo tutto.
Il lungo lavoro diplomatico per ricucire le “incomprensioni” e rassicurare per sempre Israele produce un risultato al di sopra delle aspettative: l’intero parlamento americano viene conquistato da Bibi Netanyahu e si lascia condurre in un’ovazione che un abile rapper ha addirittura musicato (su You Tube: Bibi pro America).
Ed è ancora il giornale israeliano Haaretz che descrive “lo spettacolo di centinaia di forsennati parlamentari che battono e le mani e saltano in piedi. Bugie su bugie. E ad ognuna uno scroscio di applausi. Ovazioni e tifo da stadio quando si sente il discorso funebre su Gerusalemme: “che è una e per sempre resterà indivisibile capitale d’Israele”.
A questo punto non ci resta che chiederci: finiranno queste interminabili ore piene di “discorsi di pace”? Cerchiamo invano una sintesi nei nostri media italiani ma dall’estero ci vengono le conclusioni più chiare: “Obama e Netanyahu stanno facendo tutto il possibile per impedire la creazione di uno stato palestinese. Nessuna pace. Non solo ora, mai” (Gush Shalom).
“Signor Obama, davvero belle le sue parole sulle rivoluzioni arabe. Peccato che si sia dimenticato dei palestinesi. Lei si ostina a parlare di “sicurezza” solo per Israele. Ma si guardi intorno: i popoli arabi, tutti ormai, non hanno più paura di niente e di nessuno. Molto presto i palestinesi di Gaza, senza aspettare lei, marceranno fino al confine di Israele e domanderanno semplicemente di “andare a casa”. (Robert Fisk, The Indipendent)
BoccheScucite
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