tratto da: https://frammentivocalimo.blogspot.com/2020/08/lorenzo-forlani-beirut-devastata.html

I danni al porto di Beirut (AP Photo/Hussein Malla)
IL REPORTAGE – Quella su cui cala la notte non sembra più una città. Nella capitale del Libano le ambulanze sono le uniche cose che si muovono, tra i fumi scuri che vengono dal molo e spettri immobili di persone in trance. Beirut era in lockdown per l’aggravarsi della pandemia, e migliaia di persone sono rimaste nelle case che gli sono crollate addosso. E ora, nel Paese da mesi travolto da una crisi pensatissima, tutto il grano depositato nei granai del porto è contaminato e inutilizzabile
Per capire la dimensione dell’incubo in cui è piombata Beirut alle 18.08 di ieri non serve nemmeno avvicinarsi al luogo dell’esplosione, nel porto cittadino, nodo cruciale per un Paese stremato dalla crisi che vive solo di importazioni. Una densa nube di colore rosa si alza in cielo e viaggia compatta verso le colline che circondano la città, sorvolando le finestre e porte sfondate di edifici che distano anche 12 chilometri dall’esplosione. Progressivo ed inesorabile, camminando verso il mare, è l’aumento dei visi stravolti e insanguinati, le stazioni di benzina in fiamme, le automobili schiacciate dagli alberi, gli ingressi di noti esercizi commerciali che si fa fatica a riconoscere.
Già nei pressi del ponte che separa il confine orientale della municipalità di Beirut dall’affollata Bourj Hammoudlo scenario è apocalittico, con un continuo via vai di disperazione diffusa, emorragie affrontate in autonomia, persone intrappolate, macchine capovolte, l’aria grigia come il cemento. Imboccando Armenia street, ed entrando così nel quartiere beirutino di Mar Mikhail, famoso per i pub e la movida permanente, si viene accompagnati da urla sempre più intense, da feriti sempre più gravi trasportati da chi riesce, e la strada si fa impraticabile per la quantità di macerie.
All’entrata del porto è schierato l’esercito, che prova a dirigere il traffico di ambulanze colme di morti e feriti. Davanti al cancello giacciono una decina di corpi in attesa di essere portati via da qualche mezzo che abbia spazio al suo interno, mentre gli operatori sanitari provano a rianimare chi sembra messo meno peggio. Non fanno in tempo a dedicarsi a uomini dilaniati che ne arrivano altri. I morti sono centinaia, i feriti diverse migliaia, non lontano dal porto c’è il waterfront, dove si va a fare jogging.
“Quel che è accaduto oggi è più grande del Libano stesso. I responsabili pagheranno caro”, tuona alla tv il primo ministro Hassan Diab, mentre dichiara l’indomani giornata di lutto nazionale. I principali ospedali della città annunciano la saturazione, alcuni di essi curano i feriti nei parcheggi, altri dimettono pazienti meno prioritari. Il direttore della Lebanese American University è il primo ad invitare all’evacuazione della città, per via della diffusione nell’aria di residui tossici delle 2750 tonnellate di nitrato di ammonio immagazzinato 7 anni fa – in circostanze poco chiare – nel deposito esploso.
Non sono ancora chiare le cause della deflagrazione nel magazzino, che al momento appare colposa e fa impallidire quella che nel 2005 uccise il primo ministro Rafiq Hariri. In serata il presidente della Repubblica Michel Aoun ha convocato il Supremo Consiglio di Difesa, che due ore dopo dichiarerà lo stato di emergenza e designerà la capitale come “città disastrata”. Ma quella su cui cala la notte non sembra più nemmeno una città, e questo è molto più di un disastro.
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