“Erano le 11.23. Non potremo dimenticare ogni singolo minuto di quelle interminabili giornate. Era il periodo degli esami della sessione invernale e in migliaia stavamo lasciando le scuole e le università. In poco tempo sono state colpite ben 37 scuole primarie e secondarie.
Carissimi,
Vi scriviamo da compagni di scuola, noi studenti della Striscia di Gaza assediata (il cui intero sistema educativo è stato paralizzato a causa del blocco imposto da Israele, che persiste da più di quattro anni!). Siamo profondamente addolorati perché quest’anno terrete la vostra conferenza annuale a Gerusalemme e non siete riusciti ad esprimere lo stesso coraggio che la nostra Unione degli Studenti aveva dimostrato tanti anni prima opponendosi all’apartheid sudafricano. Siamo rattristati perché non siete stati capaci di rompere il silenzio. Vi supplichiamo: abbiamo ancora tanto bisogno di voi!” (Lettera degli studenti di Gaza all’Unione degli Studenti, 6 novembre 2010)
L’appello, che in mille forme diverse sempre nuovamente ci raggiunge, è lo stesso che il documento Kairos Palestina ha espresso con lucidità e che il Sinodo dei Vescovi ha rilanciato con autorevolezza: Non lasciateci soli. Ora. Prima che sia troppo tardi!
E’ l’appello rivolto a noi occidentali, a noi e a voi. Per ricordarci che solo lottando insieme non soccomberanno alla violenza dell’aggressore. Quello che Kairos ha definito “grido urlato da un punto morto nella tragedia del popolo palestinese, mentre il futuro promette soltanto sventure”. Questo grido lo si può leggere negli occhi di tutti i palestinesi.
In realtà ce lo dicono con gli occhi tutti gli oppressi della terra (ritornate sulla foto di copertina e fissate per alcuni istanti gli occhi di alcuni dei 132 giovani migranti sbarcati a Catania il 26 ottobre, fra loro molti palestinesi).
Vi ricordate lo sguardo di Mufid, 8 anni? Qualche tempo fa era stato investito da un colono israeliano mentre lanciava pietre contro la sua auto. Quattro giorni dopo, il bimbo è stato prelevato all’alba dalla sua abitazione di Silwan, ed è stato impedito al padre di accompagnarlo in commissariato. Ma le storie sono infinite e in questi giorni viene presentato l’ennesimo Rapporto sulla gioventù palestinese. Defense for Children traccia un quadro agghiacciante: i casi di pestaggi, attacchi armati, violenze e abusi sessuali sui ragazzini sono un appello muto che sappiamo non troverà risposta. Il Rapporto shock riporta in particolare le aggressioni dei coloni israeliani. Mohammed, di 15 anni e suo fratello Bilal, di 16, sono stati arrestati a casa loro ad Hebron alle due di notte. Decine di poliziotti erano andati a cercarli, col viso coperto e nascosti tutt’intorno alla casa. Mohammed, dopo essere stato minacciato e picchiato per quattro ore, ha finito per ammettere di essere effettivamente colpevole… colpevole di aver lanciato delle pietre contro i cani dei coloni insediati dall’altra parte della strada. È stato per questo condannato a sette mesi di prigione. Suo fratello Bilal, in seguito all’interrogatorio, è stato ricoverato in ospedale per le contusioni interne riportate ed è stato condannato a un anno di prigione per avere lanciato sassi contro le case dei coloni.
Ma queste grida di dolore semplicemente non ci raggiungono.
E quando la TV decide di farci vedere i volti dei ragazzi di Hebron, partorisce un assurdo servizio come quello di Pagliara al TG2 di qualche giorno fa. Ancora una volta basterebbe una partita di pallone per fare la pace! (http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-637535ce-2815-45b8-acf9-9d72f04fea29-tg2.html ai minuti 20.59). E ciò che è più grave è che al telespettatore non viene data nessuna informazione perchè possa capire. Tra un calcio di rigore e un goal, non importa dire che questi “ebrei di Hebron” sono coloni invasori che non sono a casa loro. E non conta sapere che la città palestinese è oppressa dai settlers e ridotta a un inferno fin dal suo antico mercato.
Chi lancerà allora questo appello senza eco, se i media lo censurano? Che parole dovremo usare per riuscire a rompere il muro della falsità, come ha fatto il Messaggio finale del Sinodo?
Qualche giorno fa a Ramallah, lo storico israeliano Ilan Pappe ha sottolineato l’urgenza di cambiare il vocabolario con cui parliamo di Israele: “Basta. Ci vuole una nuova terminologia riguardante Israele. La gente deve cominciare a pensare ad Israele non più in termini di una democrazia di pace ma per quello che oggi purtroppo è: uno stato colonialista, razzista, che porta avanti un apartheid etnico”.
Allora è sempre più chiaro. Abbiamo due possibilità: decidere di andare in quella terra per vedere con i nostri occhi e ascoltare con le nostre orecchie questo grido di dolore rivolto esattamente a noi, oppure creare mille occasioni per amplificarlo e diffonderlo qui in Italia. A fine novembre, in alcune città d’Italia si comincia finalmente a celebrare la “Giornata ONU per i diritti del popolo palestinese”. E’ stata proclamata nel 1977 e a tutt’oggi resta praticamente sconosciuta ai media e alle nostre istituzioni. Ma questo è inutile commentarlo.
Facciamo invece la nostra parte. Sabato 27 e domenica 28 novembre,con la Campagna di Pax Christi, a Fiesole e Firenze saremo in tanti a prenderci il tempo necessario per far nostro l’appello che sentiremo direttamente dalla voce dei palestinesi. In questa occasione vedremo in anteprima un film sulla distruzione delle case girato quest’estate durante il Pellegrinaggio di Giustizia (“Palestina. Homeless”) e un dvd prodotto dal team di Ricucire la Pace sulla condizione dei giovani in Palestina.
E chi non potrà esserci, dovrà inventare altri modi per amplificare e rispondere a questo appello. Potrà per esempio divulgare il nuovo VIDEO-REPORTAGE sulla resistenza a Gaza, “LE CHIAVI DI GAZA” (strumenti.campagna@gmail.com ). Non crederete ai vostri occhi nel vedere fin dove sa arrivare la resistenza nonviolenta di un popolo schiacciato ma non vinto: vedrete (e potrete far conoscere ad altri) le “fabbriche di mattoni” dove si riciclano le… macerie, geniale invenzione dei ragazzi di Gaza in risposta al divieto criminale di Israele a far entrare nella Striscia qualsiasi materiale per l’edilizia. Vedrete (e dovrete far conoscere ad altri) la pesca senza barche dei giovani, ostinato “gettare le reti” nonostante tutte le minacce delle motovedette che pattugliano le coste per sparare ai pescherecci…
Questa sarà la nostra risposta. Al piccolo Mufid, a Mohammed e a suo fratello Bilal. A tutti i ragazzi che, come ci racconta Michele Giorgio, rischiano ogni giorno la vita sulla loro terra, in quella che illegalmente Israele ha deciso essere una “zona cuscinetto vietata”:
“Ghiaia, pezzi di ferro e qualche avanzo del cemento resta una merce ricercata a Gaza perché Israele ne limita al minimo l’ingresso. I bambini sono chinati, rovistano tra pietre e macerie di quella che un tempo era un’area industriale. Ogni tanto parte un colpo dalle postazioni israeliane, non sempre di avvertimento, in direzione di quelli che si «avvicinano troppo». I ragazzi si abbassano per pochi secondi, poi riprendono la loro attività di scavo, accompagnati da un somaro e un carretto.
È un’attività rischiosa, che si svolge a distanza ravvicinata dall’alto muro che circonda il terminal di Erez e dove svettano le torrette di sorveglianza israeliane.
Ahmad, 15 anni, di Beit Laiyah, risponde alle nostre domande dal suo carretto che procede lento, sotto il peso di un carico di pezzi di metallo. «Servono per armare quel poco di cemento che si riesce a trovare a Gaza» ci spiega mostrandosi stupito per le nostre scarse conoscenze in materia. «Vengo qui alle prime luci del giorno e vado via al tramonto – racconta Ahmad – con l’oscurità non si può lavorare, gli israeliani di notte sparano per uccidere.
Non solo di notte – aggiunge Faisal, 11 anni, – due mesi fa un colpo ha ferito un mio amico che è ancora vivo per miracolo». I ragazzi un po’ più grandi, quelli che hanno 15-16 anni, corrono i rischi maggiori, spiega Faisal, perché verso di loro i militari aprirebbero il fuoco senza farsi tanti scrupoli. «Quando ad avvicinarsi troppo al Muro sono i bambini, i soldati sparano quasi sempre colpi d’avvertimento», aggiunge Faisal che a 11 anni ha già vissuto tutti i drammi di Gaza stretta nella morsa di Israele. Tra il 26 marzo e il 14 ottobre di quest’anno almeno 14 ragazzini palestinesi sono stati colpiti mentre si trovavano ad una distanza variabile tra i 50 e gli 800 metri dalle postazioni israeliane. Tra gennaio 2009 e agosto 2010, almeno 22 civili palestinesi sono stati uccisi e altri 146 feriti per essere entrati nella «zona cuscinetto». A colpirli sono state le armi a controllo remoto, simili alla playstation, manovrate da soldati e soldatesse israeliane di guardia nelle torrette di avvistamento. A rivelarlo qualche mese fa è stato il giornale Haaretz, che ebbe la possibilità di intervistare alcuni dei militari impiegati nel videogame mortale. Nella torretta di controllo, dichiarò al quotidiano israeliano il soldato Bar Keren, «E’ veramente qualcosa di affascinante».
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