Mai potranno farmi tacere! di Nai Barghouti

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Nai Barghouti ha 14 anni, è studentessa al nono anno, flautista e compositrice. Vive a Ramallah nella Palestina occupata. In questo straordinario diario racconta la sua esperienza quando è stata presa in ostaggio in un recente raid dell’esercito israeliano il 21 aprile. L’esercito voleva arrestare lo zio, il dr. Ahmad Qatamesh (scrittore, attivista difensore dei diritti umani e accademico).

Io sono una ragazza. Sono una musicista. Sono una studentessa. Ho una famiglia che mi ama. È così. Ma sono una palestinese. E adesso, questo per me è più importante di tutto il resto. Essere palestinese è nelle mie radici.

«Altolà!», ha abbaiato un soldato israeliano, enorme, spaventoso, come un bulldog arrabbiato, ogni volta che resistevo ai suoi ordini. Anche se questo paragone non è esatto: un bulldog, malgrado il suo aspetto impressionante, può in realtà essere estremamente gentile e affettuoso. Ma quel soldato era tutto meno quello! Forse è più giusto descriverlo per il suo modo criminale di agire. Lui e una dozzina di altri soldati avevano sfondato la finestra dell’appartamento di mia zia nel bel mezzo della notte di giovedì scorso, prendendo in ostaggio me, mia zia Suha, mia cugina di 22 anni e la mia anziana nonna di 69 anni.

Questa notte di terrore – e di sfida- è indimenticabile. Mi ha ricordato una precedente invasione, quando dei soldati israeliani erano venuti ad occupare il nostro appartamento e avevano tentato di espellerci. All’epoca io avevo cinque anni e mi sentivo impotente, terrificata, avevo voglia di vomitare e le mie ginocchia si piegavano. Avevo domandato a mia madre quello che dovevo fare per fermare tutto ciò, mentre mio padre era occupato a fronteggiare i soldati: « Finchè vivremo, diceva loro, non prenderete la nostra casa! ». « Non abbiamo armi, abbiamo solo il nostro diritto e la nostra dignità ». non cessava di ripetere questo, senza sosta, per questo mi è rimasto in mente. Avevo così paura che gli facessero del male, che le mie ginocchia continuavano a tremare. La mamma mi suggerì allora di avvicinarmi a uno dei soldati e di guardarlo dritto negli occhi. All’inizio esitai, dicendomi che lei aveva perso la testa; il fucile di quel tipo era molto più grande di me. E poi, finalmente, lo feci. E con mia sorpresa, ad un tratto, il soldato abbassò gli occhi, evitando di guardare nei miei. Trionfante, mi dissi “sììì”, e le mie ginocchia smisero di tremare. Avevo capito ciò che voleva dire veramente ‘sfidare’ – tahaddi, in arabo.

Mercoledì scorso avevo passato la notte da mia zia Suha. Mi svegliai un po’ dopo l’una del mattino, sentendo la voce di Hanin che mi chiamava a pieni polmoni dal corridoio. Mi avvisava che dei soldati potevano fare irruzione nella sua stanza, dove io dormivo. Non voleva vedermi alle prese con un soldato, con il suo grande fucile, qualora stessi appena aprendo gli occhi. Più tardi, mi ha raccontato come in una situazione simile lei fosse stata traumatizzata quando erano venuti ad arrestare suo padre, la prima volta, nel ’92, quando lei non aveva che tre anni. Con il tempo aveva dimenticato quella notte orribile, salvo i dettagli di quel soldato israeliano che continuavano a spaventarla.

Ci trattennero tutte e quattro nel salone, con molti soldati a sorvegliarci. Cercavano il padre di Hanin, Ahmad Qatamesh, un esperto di scienze politiche, autore di numerosi libri, una persona amabile e serena. Ha scritto anche di quello che ha vissuto durante i suoi quasi sei anni di prigione, in « detenzione amministrativa » (cioè senza capi di imputazione, né processo), su ciò che pensava della guerra, dell’autorità palestinese, delle rivoluzioni arabe, del socialismo e di molte altre cose, come mi ha spiegato Hanin. Non si può fermare qualcuno perchè dice la verità, o dice o scrive quello che pensa. Una opinione non è mai sbagliata quando non la imponete agli altri. Secondo me ognuno è libero di pensare, di scrivere, di opporsi all’ingiustizia.

Ho domandato al soldato di chiudere la porta, perchè c’era molto rumore fuori. I soldati avevano sfondato la porta dei vicini, quando Suha gli aveva detto che erano partiti per gli Stati Uniti. « Valla a chiudere da sola » mi ha risposto. Per essere onesta, ero troppo nervosa per andarci. Sono sprofondata nell’incavo del divano giallo sul quale ero seduta, cercando di non dimostrare di essere scossa. Ho sentito la mia pelle diventare del colore del divano. « Siete entrati illegalmente a casa delle persone », gli ho replicato. « Chiudi la tua… » mi ha urlato di nuovo con voce tonante. L’ho chiusa, la mia bocca, ma mi sono sentita veramente male quando è riuscito a farmi tacere. All’inizio ho cercato delle scusanti al mio atteggiamento: erano grandi e armati, e noi non eravamo che quattro. Avrebbero potuto farci del male se ci fossimo ribellate. Non potevo parlare. La mia bocca era paralizzata, le mie labbra tremanti non potevano produrre il minimo suono. Poi, finalmente, ho capito come dominare la mia paura.

Il ricordo del mio precedente incontro con i soldati nel nostro appartamento mi è tornato in mente, e mi sono sentita rinfrancata. Ho deciso allora di non chiudere la bocca, qualunque cosa succedesse. Il fatto di sottomettersi non ha mai reso i soldati meno impietosi; questo mi sono detta.

Ci avrebbero tenuto in ostaggio finchè non avessero trovato Ahmad, lo avevamo capito. Hanin si è servita della scusa di dover andare in bagno per allertare suo padre che si trovava a casa di suo fratello quella sera. Quando è tornata nella nostra ‘prigione’, il salone, il telefono di casa ha cominciato a squillare. Il comandante israeliano ha sussultato e ha preso il telefono. Era Ahamad! Hanin era arrabbiata che lui chiamasse, perchè sperava che avrebbe evitato in un modo o nell’altro l’arresto. L’idea di perderlo ancora una volta la sconvolgeva. Ma Ahmad vedeva le cose diversamente, Suha ce l’ha spiegato più tardi. Il comandante lo aveva minacciato dicendo: « Se non ti consegni, metteremo scompiglio nella casa e distruggeremo i mobili ». Ahmad, in collera, rispondeva gridando in modo sufficientemente forte perchè noi potessimo capire vagamente alcune delle sue frasi: « Siete una forza d’occupazione che si è introdotta illegalmente a casa… siete dei vigliacchi, lasciate stare la mia famiglia. Se mi volete, venite ad arrestarmi da mio fratello. Sapete dove trovarmi. » Ahmad voleva proteggerci tutte, era chiaro, non sentiva il bisogno di scappare perchè non aveva niente da nascondere.

Intanto, il comandante e alcuni suoi soldati ci trattavano come se fossimo animali della loro fattoria – la loro fattoria! Con i loro ordini arroganti, i loro sguardi viziosi, i gesti aggressivi, il loro modo di fare colmo di odio e di razzismo che, da loro, ha sotterrato ogni senso di umanità, se ne hanno mai avuto uno.

Noi quattro abbiamo deciso di non mostrare loro la nostra paura. Non fraintendetemi: noi avevamo paura di morire, ognuna di noi ce l’aveva, ma lo nascondevamo. Dopo un po’, abbiamo compreso che qualcuno di loro era timoroso e nervoso. Quando, ad esempio, mi sono alzata per sistemarmi i pantaloni, due soldati hanno subito puntato le armi contro di me. Ho detto loro: « Codardi ! ». non è quello che bisognava fare con loro. Abbiamo deciso allora di iniziare una conversazione l’una con l’altra, ignorando la presenza stessa dei soldati. Abbiamo parlato, riso, e parlato ancora a voce alta. Dovevano aver pensato che siccome eravamo donne, e donne palestinesi, (benchè, teoricamente, io sia sempre una bambina), noi avremmo gridato, pianto, implorato. Così avrebbero fatto presto! Noi invece stavamo mettendo in atto una forma di resistenza nonviolenta: il TLI ! (Talk [parla], Laugh [ridi], e Ignore [ignora, si vedrà]).

Ho pensato che un po’ di musica ci avrebbe aiutato a rilassarci. Avevano confiscato tutti i nostri telefoni portatili, ma io avevo nascosto fortunatamente il mio per il momento buono. Ho messo Li Beirut, una canzone della diva libanese Fairouz. Frasi liriche, accostate ad una musica spagnola romantica, evocavano Beirut, la sua bellezza e la sua resistenza all’esercito israeliano. Essi odiano la nostra umanità e non possono sopportare niente di bello a casa nostra, per questo cercano di distruggere ogni cosa. Anche dei bambini e delle donne sono state assassinate a Beirut, come a Gaza.

Si sono impadroniti del telefono e hanno interrotto la musica.

Abbiamo cominciato allora a fare loro delle domande, senza interruzione: « speriamo bene che non ruberete i nostri oggetti di valore in queste stanze, vero?» « noi non prendiamo mai quello che non ci appartiene » ha gridato uno di loro, indignato. Hanin ha replicato: « oltre a rubare la nostra terra, ogni giorno, avete rubato oggetti preziosi nelle case palestinesi durante le invasioni precedenti! ». il loro capo è tornato, e ha dato loro nuovi ordini. Non ho resistito a dire : « mi ricordate così tanto le pecore. Lui è il vostro pastore, e voi, voi tutti lo seguite ciecamente. ». Uno di loro ha puntato su di me il suo fucile M16, e mi ha detto: «Chiudi la tua… !». allora gli ho risposto: « Se odi così tanto la verità, perchè non ti rifiuti di obbedirgli? Perchè persisti a terrorizzarci?». E lui ha continuato a ripetere il suo insulto preferito, e ha continuato a puntare il suo fucile sul mio viso. Suha è sobbalzata e gli ha gridato:«lei non ha che quattordici anni, avete ancora qualcosa di umano in voi? ».

Io ribollivo di collera, ma non ho voluto regalare loro il piacere di vedermi piangere. Non facevano che umiliarmi, si sforzavano di fare di me una vittima silenziosa. Non volevo tacere. E non volevo sottomettermi, in nessun modo. Ne avevo abbastanza. Volevo che se andassero, subito. Ero molto stanca e avevo voglia di dormire. Ma persistevo a voler mostrare loro di che pasta è fatta una giovane palestinese! Le immagini della Tunisia e dell’Egitto erano ancora ben chiare nella mia mente, e mi sono sentita colma di fierezza.

Ciò che mi faceva arrabbiare di più è che avevano usato il mio telefonino per chiamare Ahmad quando avevano cercato di trovare la casa di suo fratello per arrestarlo. Avrei voluto non averlo più con me. Ero esausta. Avrei voluto sparire e tornare una volta che se ne fossero andati. Si sono divisi: alcuni sono rimasti in casa custodendoci come ostaggi, mentre altri sono partiti per arrestare Ahmad. Eravamo terribilmente in ansia per lui. Ci hanno rilasciate solo a missione compiuta. Prima di partire, l’ultimo ha guardato Hanin, che era sul punto di crollare, e l’ha stuzzicata: « Abbiamo preso tuo padre. Vado a prendermi cura di lui! ». Allora lei ha gridato: « Criminali! Avrà cura di se stesso da solo! ». Aspettavamo con ansia che ci lasciassero, per essere libere, ma anche per poter esprimere liberamente le nostre emozioni. Io e Hanin abbiamo lasciato fuggire un grido dal cuore, un misto di paura, di profonda inquietudine per Ahmad, e di una collera ancora più profonda.

Quando finalmente se ne sono andati, abbiamo cercato semplicemente di cercar di comprendere cosa era successo. Per un minuto, abbiamo pensato che stavamo vivendo un incubo senza fine. Abbiamo potuto ricostruire i dettagli solo dopo. Era come se fossimo là e contemporaneamente non ci fossimo. Immagino sia come se stessimo vivendo un’insonnia intrisa di orrore intenso.

Una volta calmata, mi sono sentita in colpa per aver desiderato sparire mentre erano ancora tra noi, per tornare una volta finito tutto. Come ho potuto voler fuggire in questo modo? Fuggire senza mettere in causa la loro occupazione e il loro razzismo? Abbandonare il mio sogno di una Palestina libera? Scappare lontano come se non me ne importasse degli altri? A cosa pensavo? Non potevo essere io quella. Io sono una ragazza. Sono una musicista. Sono una studentessa. Ho una famiglia che mi ama. È così. Ma sono una palestinese. E adesso, questo per me è più importante di tutto il resto. Essere palestinese è nelle mie radici.

Possono uccidermi, possono rubarmi la terra, lo fanno già, continuamente. Possono arraffare le nostre olive, come fanno spesso. Possono prendere tutto, ma non avranno mai la nostra identità, la nostra dignità e la nostra speranza di essere liberi.

Mai, potranno farmi tacere.

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