Mettere all’angolo un coraggioso uomo di pace palestinese

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REDAZIONE 7 FEBBRAIO 2014

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di Nicolas Nasser

6 febbraio 2014

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas si trova ora a un bivio della lotta nazionale del suo popolo per la liberazione e l’indipendenza e anche della sua carriera politica di una vita, messo all’angolo tra  l’incudine del suo elettorato che lo rifiuta e il martello della potenza occupante, Israele, e dei sostenitori statunitensi dei loro negoziati bilaterali, che sono stati ripresi il 29 luglio scorso, malgrado Abbas abbia fatto delle concessioni per il dragaggio delle mine e abbia fatto marcia indietro “rispetto a tutte le sue linee rosse”.

Pressato senza pietà sia dai negoziatori israeliani che dai mediatori americani, la vaga causa della pace che sta quasi per perdere con Abbas un coraggioso palestinese pacificatore di una statura storica la cui scomparsa  sprecherebbe l’ultima possibilità della cosiddetta soluzione dei due stati.

Continuare a fare pressioni su Abbas perché dia più concessioni senza alcuna ricompensa reciproca, sta trasformando un uomo coraggioso in un avventuriero che commette errori storici e strategici agli occhi del suo popolo, una tendenza che, se continuasse, in men che non si dica lo priverebbe di un peso personale che è un prerequisito per far sì che il suo popolo accetti la sue “dolorose” concessioni.

L’accordo-quadro che sta emergendo, pesantemente “filo-israeliano” proposto dagli Stati Uniti, “sembra chiedere ai palestinesi di accettare i termini di pace che sono peggiori di quelli israeliani che hanno già rifiutato….che farebbe tutto tranne che costringere i palestinesi a rifiutarlo,” ha scritto Larry Derfner su The National Interest il 3 febbraio scorso.

Abbas “rifiuta tutte le soluzioni transitorie, parziali e temporanee,” ha detto il suo portavoce Nabil Abu Rdaineh lo scorso 5 gennaio, ma questo è esattamente ciò che rivelano le fughe di notizie sul piano “dell’accordo-quadro.” A quanto si dice, il Quartetto internazionale per il Medio Oriente, compresi Stati Uniti, Unione Europea, ONU e Russia che si sono incontrati la settimana scorsa ai margini della Conferenza di Monaco sulla sicurezza, hanno sostenuto gli sforzi del Segretario di Stato americano John Kerry per impegnare i negoziatori palestinesi e israeliani nello “accordo-quadro”da lui proposto.

Anche l’Europa sta stringendo la corda al collo di Abbas. Se i colloqui con Israele sull’attuale accordo-quadro appoggiati dagli Stati Uniti falliranno, l’Europa non continuerà automaticamente ad appoggiare l’Autorità Palestinese, ha riferito il sito web il 29 gennaio scorso.

Tuttavia, l’inviato degli Stati Uniti Martyn Indyk, il 31 gennaio scorso ha detto che Kerry ha intenzione di proporre “l’accordo quadro” ai negoziatori palestinesi e israeliani “tra poche settimane,” ma lo stesso giorno  la portavoce del Dipartimento di Stato Jen Psaki “ha chiarito” in una dichiarazione che i “contenuti dell’accordo” non sono “definitivi” perché “questo è un procedimento ancora in corso e queste decisioni non sono state ancora prese.”

Decisioni storiche in confronto a decisioni politiche

Il 30 gennaio scorso, il  presidente israeliano Shimon Peres, durante una conferenza stampa congiunta con l’inviato del Quartetto per il Medio Oriente, Tony Blair, ha detto che ora c’è “un’occasione” per prendere “decisioni storiche, non politiche” per la “soluzione dei due stati” del conflitto arabo-israeliano, che “stiamo affrontando il periodo più decisivo fin dall’istituzione del nuovo Medio Oriente avvenuta nel 1948,” cioè da quella che lo storico israeliano Ilan Pappé ha chiamato la “pulizia etnica” degli arabi e dei palestinesi e dalla creazione dello stato di Israele sulla loro terra ancestrale.

Peres, nella stessa occasione, ha detto di essere “convinto” che Abbas vuole “seriamente” fare pace con Israele, ma quello che Peres ha mancato di osservare, è che le “decisioni storiche” vengono prese da leader storici e che un leader di questo tipo a Israele manca ancora fin dall’assassinio del defunto ex premier Yitzak Rabin nel 1995, ma è disponibile nella persona del presidente Abbas, che Peres aveva più di una volta confermato come “partner” per la pace palestinese, opponendosi alla smentita ufficiale del suo paese riguardo all’esistenza di un tale partner da parte palestinese.

L’impegno incrollabile di Abbas durato più di venti anni, per la pace, per i negoziati, per  la rinuncia alla violenza e per la soluzione dei due stati, gli ha fruttato da parte del suo stesso popolo il rifiuto di un semi-consenso e l’opposizione ai suoi sforzi infruttuosi. Si sta opponendo al suo elettorato appartenente all’Organizzazione per la liberazione della Palestina, (OLP) che è guidata dalla sua organizzaione Fatah, per non parlare dei suoi rivali politici guidati da Hamas e non appartenenti all’OLP, che si sono opposti alla sua decisione di riprendere i negoziati bilaterali con Israele e che stanno rifiutando in maniera massiccia le  componenti che sono trapelate dello “accordo-quadro” di Kerry. Abbas oggi è forse il più recente leader palestinese che ha una certa fede nel processo diplomatico,” ha scritto Elhanan Miller sul giornale The Times of Israel  il 3 febbraio scorso. La “pressione” palestinese sta montando verso di lui anche da parte di membri del suo proprio partito  Fatah e “la sua squadra che stava negoziando è andata in pezzi” quando il negoziatore Mohammed Shtayyeh si è dimesso nel novembre dello scorso anno. In un’intervista registrata nella settimana precedente,  proprio per la conferenza dell’Istituto di Studi per la sicurezza nazionale, di Tel Aviv, Abbas “ha detto che potrebbe non essere in grado di resistere alla pressione per molto altro tempo,” ha scritto Miller. “In questi giorni Abbas è in una posizione non invidiabile. Mentre i negoziati con Israele entrano nell’ultimo terzo del periodo di nove mesi,” il presidente palestinese si trova “messo all’angolo” tra un rifiuto palestinese e “e una dirigenza israeliana impegnata a dipingerlo come un estremista inflessibile,” secondo Miller, che ha citato il ministro dell’Intelligence israeliana, Yuval Steinitz che aveva descritto Abbas la settimana precedente come il  principale fornitore di veleno anti-semita e anti-israeliano.”

Un’analoga demonizzazione “politica” a opera di Israele di una figura storica come Abbas, ha portato Jamie Stern-Weiner, del New Left Project a scrivere su GlobalResearch on line, l’1 gennaio scorso, “di aspettarsi che: ” probabilmente Abbas si prenderà una pallottola in testa!” Jamie non stava esagerando davanti dell’avvertimento di Kerry, riferito da funzionari dell’Autorità Palestinese (AP), che Abbas potrebbe trovarsi ad affrontare lo stesso destino di Yasser Arafat.

La principale negoziatrice di Israele, Tzipi Livni, il 25 gennaio scorso ha affermato che le posizioni di Abbas sono “inaccettabili per noi” e ha minacciato i palestinesi di “fargli pagare il prezzo” se Abbas continua ad attenersi a queste. “Questa è una chiara minaccia ad Abbas in persona, e deve essere presa sul serio,” ha detto subito dopo ai giornalisti il Ministro degli esteri dell’AP, Riyad al-Maliki. “Distribuiremo le dichiarazioni della Livni a tutti i ministri degli esteri e alla comunità internazionale. Non possiamo rimanere in silenzio di fronte a queste minacce,” ha aggiunto. La demonizzazione fatta da Israele non si limitava ad Abbas: colpiva anche Kerry, definito “offensivo,” “ingiusto,” “intollerabile,” “ossessivo,” “messianico” e che si aspetta che Israele “conduca i negoziati con una pistola alla testa.” Il Consigliere statunitense per la sicurezza nazionale, Susan Rice, ha scritto dei tweet di riposta per  comunicare, secondo il quotidiano Haaretz del 5 febbraio,  che “gli israeliani che insultano hanno superato il limite del galateo diplomatico!”

Le concessioni per lo il dragaggio delle mine

La demonizzazione di Abbas è stata la ricompensa israeliana per le concessioni per il dragaggio delle mine  da lui fatte  di modo che la ripresa dei negoziati fosse un successo, anche rischiando una crescente opposizione in  patria a un semi-consenso:

* Abbas aveva fatto marcia indietro rispetto alla sua pre-condizione in precedenza proclamata per la ripresa dei negoziati bilaterali con Israele, cioè congelare l’espansione accelerata degli insediamenti ebraici di Israele nei territori  palestinesi – occupati militarmente da Israele nel 1967 – almeno temporaneamente durante la ripresa dei negoziati.

* In seguito, secondo Tzivi Ben Gedalyahu, che ha lo scritto su The Jewish Press, il 3 febbraio scorso, Abbas “ha fondamentalmente fatto marcia indietro su tutte le “linee rosse” che aveva fissato, tranne che “dare retta all’insistenza Israele di riconoscerlo come “stato ebraico,” il che è una nuova precondizione richiesta  da Israele in modo unilaterale, che perfino il Ministro degli esteri giordano, Nasser Judeh, ha considerato “inaccettabile” il 2 febbraio scorso, malgrado il trattato di pace fatto con Israele dalla sua nazione.

* Nell’ intervista  al New York Times del 2 febbraio di quest’anno, Abbas ha reiterato la sua promessa di non permettere una terza Intifada, o una insurrezione: “Nella mia vita, e se ne avrò ancora un’altra in futuro, non tornerò mai alla lotta armata,” ha detto, privandosi quindi volontariamente di una fonte già provata con successo di un potere di trattativa e di uno strumento legittimo per resistere all’occupazione militare ordinata dalla legge internazionale e dalla Carta dell’ONU.

* Nella stessa intervista ha ceduto alla precondizione posta da Israele di “demilitarizzare” qualsiasi futuro stato palestinese, compromettendo così in anticipo la sovranità di tale stato. Ignorando i fatti che Israele è una potenza nucleare, uno stato con armi di distruzione di massa, la superpotenza militare della regione il quarto paese esportatore di attrezzature militari  del mondo, ha chiesto: “Pensate che abbiamo qualche illusione di poter avere della  sicurezza se gli Israeliani non pensano di averla?”

* Compromettendo ulteriormente la sovranità di qualsiasi futuro stato di Palestina, Abbas, secondo l’intervista alTimes, ha proposto al Segretario  di stato americano Kerry, che una forza della NATO, guidata dagli Stati Uniti, non una forza dell’ONU, pattugli un futuro stato palestinese indefinitamente, con truppe posizionate su tutto il territorio, a tutti gli incroci, e all’interno di Gerusalemme;” sembrava insensibile al fatto che la sua gente avrebbe considerato questa forza con questo tipo di mandato come le Forze israeliane  di occupazione  (IOF – Israeli Occupation Forces) operanti sotto la bandiera della NATO e con le sue uniformi.

*Abbas  ha accettato perfino le potessero “rimanere in Cisgiordania fino a cinque anni” – e non tre come aveva dichiarato di recente – a patto che “gli insediamenti israeliani”vengano eliminati gradualmente  dal nuovo stato palestinese con un calendario simile.”

* Comunque non tutti “gli insediamenti israeliani”. Molto ben informato sulla legge internazionale, che proibisce il trasferimento di persone da una potenza occupante come Israele dai o nei territori occupati, Abbas ciò nonostante aveva abbastanza per tempo accettato il principio dello scambio proporzionale di terra, per mezzo del quale i maggiori insediamenti coloniali, principalmente all’interno dei confini della Gerusalemme più grande (è il nome che si dà all’area che comprende i circa 160 kmq che circonda la Città Vecchia di Gerusalemme, n.d.t.) che ospitano circa l’80% dell’oltre  mezzo milione di coloni ebrei illegali in Cisgiordania, verrebbero annessi a Israele. Questa concessione è equivalente ad accettare la divisione della Cisgiordania tra cittadini palestinesi e i suoi coloni illegali.

* Tuttavia, quella che Abbas aveva descritto come la concessione “storica,” “difficilissima,” “coraggiosa,” e “dolorosa” che i palestinesi avevano già fatto, risale a molto tempo prima, quando il Consiglio Nazionale della Palestina aveva adottato la Dichiarazione di Indipendenza nel 1988, che era basata risoluzione n. 181 (II) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) del 29 novembre 1947: allora “eravamo stati d’accordo a istituire lo stato della Palestina soltanto sul 22% del territorio della Palestina storica – su tutto il territorio palestinese  occupato da Israele nel 1967,”ha detto Abbas all’UNGA nel settembre 2011.

* Di conseguenza, Abbas ripetutamente dà voce al suo impegno per l’Iniziativa araba di pace del 2002, che stabilisce una soluzione “concordata” del “problema” dei profughi palestinesi del 1948. Israele  ha dichiarato  che il ritorno dei profughi nelle loro case, in base alla risoluzione N. 194 (III) del 1948 è una linea rossa non negoziabile, che rende una “missione impossibile” qualsiasi soluzione “concordata”. La concessione di Abbas rispetto a questa soluzione, sta di fatto compromettendo i diritti inalienabili di più della metà della popolazione palestinese.

Il 29 settembre, Abbas “ancora una volta” ha ripetuto “il nostro avvertimento” all’UNGA: “La finestra della possibilità si va restringendo e il tempo sta rapidamente finendo. La corda della pazienza si sta accorciando e la speranza  appassisce.”

Non per convinzione, non per mancanza di scelte

Abbas sta facendo concessioni inaccettabili per i suo popolo a causa di una profonda convinzione nella pace e dell’impegno incrollabile in negoziati di pace e non perché sia a corto di opzioni.

Una di queste è stata riferita in un’intervista al New York Times del 2 febbraio di quest’anno, quando Abbas ha detto che stava “resistendo alla  pressione” della  gente comune  palestinese e della dirigenza per  collegarsi con  le agenzie delle Nazioni Unite alle quali i suoi collaboratori “avevano presentato 63 domande pronte per essere firmate da lui.”

Nel 2012 l’UNGA ha riconosciuto la Palestina come stato osservatore  non-membro; fare di nuovo domanda per avere il riconoscimento di stato-membro, è un’altra opzione rimandata da Abbas per dare una possibilità alla ripresa dei negoziati con Israele.

La riconciliazione con Hamas nella Striscia di Gaza è una terza opzione che Abbas ha manovrato per non attuare fin dal 2005 allo scopo di non allontanare Israele e gli Stati Uniti  dai colloqui di pace perché condannano Hamas come organizzazione terroristica.

Anche la sospensione del coordinamento per la  sicurezza con Israele è un’opzione possibile che il suo predecessore Arafat di tanto in tanto era solito provare.

Cercare altri partecipanti che possano collaborare con  gli Stati Uniti per appoggiare i colloqui di pace con Israele, è un’opzione che Abbas ha chiarito nella sua più recente visita a Mosca. “Vorremmo che altre parti, come la Russia, l’Unione Europea, la Cina e l’ONU avessero un ruolo influente in questi colloqui,” sono le parole di Abbas  pronu nciate il 24 gennaio scorso, citate dalla  radio La Voce della Russia.

Il DEBKAfile di Israele  (sito dei servizi segreti israeliani, n.d.t.) in un rapporto esclusivo del 24 gennaio scorso ha considerato la visita di Abbas a Mosca una “uscita dall’iniziativa di pace di Kerry,” definendola una “Intifada diplomatica” e una “defezione” che ha colto “impreparati” Kerry e il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Il rappresentante di Abbas, Jibril al-Rjoub, il 27 gennaio era nella capitale iraniana, Teheran, per la prima volta in molti anni. “La nostra apertura verso l’Iran è un interesse palestinese e fa parte della nostra strategia di aprirci al mondo intero,” ha detto Rjoub. Tre giorni dopo, il quotidiano panarabo Al-Quds al-Arabi che ha la sede a Londra, ha riferito che Abbas sarà presto invitato per una visita in Iran, allo scopo di “ricuperare” i legami bilaterali.

Il Comitato centrale di Fatah di cui è a capo Abbas, il 3 febbraio ha detto che la visita a Teheran di al-Rjoub “è in linea con il mantenimento delle relazioni internazionali a favore degli importanti interessi del nostro popolo e della causa palestinese.”

Aprirsi a nazioni precedentemente ostili, come l’Iran e la Siria è più probabilmente una manovra tattica che un cambiamento strategico da parte di Abbas, intesa a inviare il messaggio che tutte le opzioni di Abbas sono aperte. Tuttavia la sua opzione strategica onorerebbe indubbiamente le sue ripetute precedenti minacce di dimissioni,  lasciare le Forze israeliane di occupazione a difendersi faccia a faccia con i palestinesi, il cui status quo non è più sostenibile.

Parlando a Monaco, in Germania il 1° febraio scorso, ha comunicato schiettamente questo messaggio:  “Lo status quo attuale, con assoluta certezza, ve lo prometto al 100%, non può essere mantenuto,” ha detto Kerry riguardo al conflitto israelo-palestinese. “Non è sostenibile.” Lo scorso novembre, Kerry ha avvertito che Israele avrebbe dovuto affrontare una “terza Intifada” se i colloqui che appoggiava non avessero avuto una svolta.

La perdita di Abbas o per dimissioni o per cause naturali metterebbe certamente fine alla missione di pace di Kerry e farebbe sì che il suo avvertimento si avveri.

Nicola Nasser è un importante giornalista arabo che risiede a Bir Zeit, nei territori palstinesi della Cisgiordania occupati dagli israeliani. nassernicola@gmail.com

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte:http://www.zcommunications.org/cornering-a-brave-palestinian-man-of-peace-by-nicola-nasser

Originale:Non indicato

Traduzione di Maria Chiara Starace

Traduzione © 2014  ZNET Italy – Licenza Creative Commons  CC  BY – NC-SA  3.0

 

Mettere all’angolo un coraggioso uomo di pace palestinese

http://znetitaly.altervista.org/art/14146

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