“Ah ti chiami Shaden? Che strano nome, cosa significa?”
Quante volte ho risposto a questa domanda. Shaden è un nome arabo, in un qualsiasi dizionario di lingua araba lo si trova sotto il significato di “cucciolo di gazzella”, deriva da un verbo che custodisce in sè il significato di “svezzare, camminare sulle proprie gambe”. Non mi è mai pesato avere un nome arabo, neanche in quelle situazioni, poche fortunatamente, di strano razzismo. Non me la sono mai presa più di tanto, sorvolo anche quando si sbaglia pronuncia e l’accento vola da una lettera all’altra storpiandolo un po’. Shaden non rientra nella categoria dei nomi arabi che mi fanno impazzire, anzi! Non poche le volte in cui mi sono lamentata con mia madre prendendomela con lei per i suoi gusti in fatto di nomi, ma questo lo fanno un po’ tutti.
Cresco dunque, per diciotto anni, senza troppi problemi (tranne qualche trauma infantile, come la morte della madre di Bambi, che mi ha segnato per tutta la vita) e senza dar molto peso a questa diversità legata al fatto di essere italo-palestinese. Tutto tranquillo quindi, fino a quando mi sono accorta che c’è qualcuno dall’altra parte del globo pronto a farmi passare da cucciolo di gazzella (tenera e dolce quale sono, senza dubbio) a terrorista che può mettere a repentaglio la sicurezza di un paese. Un paese? Sì, ma non uno a caso.
Il viaggio tanto atteso in terra di Palestina è arrivato finalmente, penso di averlo fatto sapere al mondo intero, e di aver torturato le orecchie di amici parlando solo di questo. Dovevo andare lì, ritornarci da sola, senza i miei genitori, il primo viaggio da maggiorenne e l’intento era quello di vivermi pienamente quest’esperienza. Voleva essere un ritorno alle origini, in un periodo tra l’altro non di poca confusione personale, uno scoprire quelle radici rubate di una terra rubata al suo popolo. Intento, con il senno di poi, raggiunto al massimo… ma con qualche problema. Problema di nome forse?
L’arrivo all’aeroporto di Ben Gurion, Israele, è stato un po’ strano: nulla da dire sulla struttura, forse uno degli aeroporti più belli che abbia mai visto, molto ricco, con tutte le caratteristiche di un aeroporto di una grande capitale occidentale, forse anche meglio. Nulla da dire in generale, peccato che io dovessi andare in Palestina e non in Israele. Allora perchè passare di lì? Ah sì! Non esiste un aeroporto palestinese. “Dai Shaden non farti troppe domande, tra un po’ sei fuori da qui”, era ciò che continuavo a ripetermi non sapendo che quel “fuori” corrispondeva a tre ore e 35274 domande dopo.
“Mi dia il passaporto, miss”. Sorrido consegnando il mio passaporto alla bella ragazza addetta al controllo. Lei, quasi schifata, inizia a farmi qualche domanda: “Shaden, ti chiami? Perchè questo nome? Dove sei nata? E tuo padre? Tuo padre come si chiama? … Prego attendi pure da questa parte, il passaporto lo tengo io”. Giusto. Mi ero dimenticata di mio padre: sono sua figlia, figlia di un palestinese del ’67, senza diritto al ritorno.
Dimenticavo, che stupida! Dimenticavo che mio padre, i suoi fratelli e tanti altri, troppi palestinesi non hanno diritto al ritorno, dimenticavo che non avrei sicuramente subìto un bel trattamento in quanto sua figlia, dimenticavo gli studi universitari di mia madre, quando studiava arabo ed ebraico e si scontrò con la freddezza della sua docente di ebraico moderno, la quale le ripeteva continuamente che i palestinesi puzzavano e i loro quartieri erano sporchi, dimenticavo anche che una qualsiasi persona, non palestinese, ha diritto di entrare in Palestina senza essere fermata come fosse un criminale, fare il bel turista e visitare Gerusalemme, entrare fino alla spianata della moschea di Al’Aqsa. Qualsiasi persona che non abbia un “legame di sangue” con questa terra può entrarvi e assaporare la bellezza di quei paesaggi.
Attendevo un qualsiasi non so chi mentre vedevo tutti gli altri passare, a meno che -come me- non avessero un nome sospetto. Fa ridere ora che ci penso, è comico! Un nome sospetto che può mettere in pericolo la sicurezza dello stato d’Israele: questo è stato il perchè della mia estenuante attesa seguita da un interrogatorio che di comico aveva ben poco. Non mi soffermo sulle domande, nè su ciò che in quello stanzino mi è stato detto da uno dei tanti pronto ad umiliarmi, a non darmi dell’acqua, a non permettermi di andare al bagno, a minacciarmi, a offendere me e la mia famiglia. Volevano sapere tutto su mio padre, sulle armi che possedevo (la pinzetta per sopracciglia era ciò che di più pericoloso avessi), sapevano già tutto ciò che volevano sapere.
Ma dimentichiamoci del trattamento subìto per un nome scomodo e una mezza nazionalità che per loro non dovrebbe esistere. Non è certo questo che mi porto dentro della Palestina. Il giorno dopo ho sorriso quando uno sconosciuto, sentendomi parlare in arabo, mi ha regalato un ciondolo dicendomi: ” Anche tu sei figlia di questo popolo”.
Ma c’è altro e altro ancora…
Continuo a rivedere flash e immagini. Così immagino di vedere Daud mentre lavora con i giovani nella sua Tent of Nations, situata su una collina che mozza il fiato. Vedo mia sorella e immagino gli occhi dei bambini del villaggio di Betania, pieni di lacrime miste a sconforto perchè non possono più andare a scuola: il muro, quel maledetto serpente di cemento, si è insediato all’interno della scuola stessa, dividendola in due. Porto con me il coraggio che ognuno di loro ha, la resistenza che mostrano per continuare ad esistere. Perchè esistere è resistere e resistere è esistere. Non riesco a dimenticare nulla, neanche quella domanda dell’interrogatorio che tanto sapeva di minaccia: ” Ma hai parenti nel villaggio di tuo padre? Perchè non ci resteranno per molto ancora, lo sai?” Non dimentico Issa e i suoi ragazzi contro gli insediamenti, Abir e i suoi figli, Abu Nahar, quei bambini arrestati dai soldati perchè si erano permessi di superare di poco quella linea immaginaria oltre la quale non gli è più concesso camminare. Ma l’Apartheid non era finito? Non dimentico e non possono farlo tutti gli ebrei che vanno contro questa maledetta occupazione, perchè ci sono, la religione non c’entra!
Terrò tutto a mente.
Ho scoperto così di avere un nome scomodo, un cucciolo di gazzella che cammina sulle proprie gambe, o imparerà a farlo, prima o poi.
E pensare che mio padre voleva chiamarmi Serena.
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