Not for ever

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Betlemme, 1 marzo 2011.

Con la nostra bandiera arcobaleno avevamo fatto solo pochi metri tra il check-point e il muro di Betlemme, ma non siamo sfuggiti al controllo del contractor assoldato da Israele per fare il lavoro sporco in questo girone d’inferno, che dalle 4 del mattino aveva ingoiato nelle sue gabbie migliaia di lavoratori palestinesi. Alzando il mitra si è scagliato contro di noi urlando: “Via quella bandiera!”. Senz’altro non solo gli ordini ricevuti, ma anche le immagini della TV lo spingevano ad intervenire senza troppe esitazioni sulla vittima di turno: una Marcia per la Giustizia, pacifica e silenziosa di quaranta italiani nella Giornata contro il muro del 1 marzo 2011. Essa appariva ai suoi occhi il germe di un’altra epocale manifestazione araba. E l’innocua bandiera per la pace che osavamo ostentare, diventava per lui la pericolosissima miccia di un’altra rivolu-zione… Tunisia, Egitto, Libia, Yemen… Non sarà mica la volta della Palestina?
Certamente la folla di giovani che ha attraversato nella Giornata contro il Muro le strade di Betlemme è stata un segno straordinario di resistenza nonviolenta in questo anniversario voluto dalle suore del Charitas Baby Hospital. Sette anni fa avevano visto entrare nella città della pace non solo la prima lastra del Muro di apartheid, ma anche la più triste conferma dell’arroganza israeliana nel progetto di distruzione del popolo palestinese, letteralmente murato vivo. E, da quel lontano 2004, ogni 1 Marzo centinaia di palestinesi e italiani fanno memoria di questo crimine riempiendo la piazza della Natività. Certo, non è ancora Piazza Tahrir…
In questi giorni in Palestina avevamo sempre sulle labbra -trasformato in domanda da fare a tutti- lo stesso interrogativo del contractor: “A quando la Palestina? E poi ancora, più sommessamente: “E come accadrà?”
Quel singolo militare concentrava in sé la paura di tutti i regimi in questa primavera di liberazione che attraversa e riga nel sangue tutto il mondo arabo, e sempre più evidente si impone una valutazione su di essa: i popoli oppressi che si stanno ribellando non li ferma più nessuno e il potere delle dittature non è sarà sempre!
Ce l’ha confermato Hafez, leader della resistenza nonviolenta nelle South Hebron Hills: “Not for ever! Lo sapevamo, ma ora lo vediamo con i nostri occhi e purtroppo dovremo ancora piangere tanto sangue per la violenza dei regimi che opprimono i popoli”.
Ci ha risposto con lucidità mons. Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme: “Invece di esprimere solo la preoccupazione per il pericolo dell’islamismo, dovremmo sostenere questo movimento di liberazione che ci annuncia: non si torna più indietro. Questo movimento di massa della rivoluzione dei popoli arabi oppressi non lo fermerà più nessuno. Arriverà anche qui in Palestina e purtroppo scorrerà del sangue. E forzerà questa porta sbarrata da troppo tempo. La porta si aprirà con molta violenza, perché i capi sono ciechi. I potenti hanno paura e continuano ad usare solo le loro armi di morte. Le armi dei regimi schiacciano i piccoli e sono inutili. Si accompagnano solo a discorsi vuoti. Guardate in Israele: Netanyahu ormai dice solo parole vuote e nemmeno gli israeliani gli credono più. E’ evidente a tutti che Israele non vuole la pace. Guardatevi attorno: le colonie, i check-point, il muro. Tutto è ormai chiarissimo. Ma ormai il movimento ha iniziato a cambiare le cose. I popoli in rivolta dicono anche a noi palestinesi: cambiare è possibile. E anche voi di Pax Christi dovrete continuare ad accompagnare e sostenere questa coalizione nonviolenta per la pace e la giustizia”.
Percorrendo le strade di Palestina, ascoltando e discutendo con la gente, ci rendiamo conto che il primo problema siamo noi, più che i popoli arabi. Siamo noi occidentali che non ci siamo accorti di quello che da anni stava covando in tutti i mondi arabi. Lo scontro con il potere stava tessendo attraverso internet una trama sempre più fitta che i nostri giornalisti, diplomatici e politici non volevano vedere e che oggi sono costretti ad ammettere. Soprattutto non hanno capito che la lotta dei giovani diventava cultura di dissenso, e ciò poi è esploso con la forza di una rivoluzione.
Pane e rose è stata e continua ad essere la richiesta comune a tutti questi popoli. Non solo pane! Ma sviluppo, dignità e libertà.
Quelle stesse richieste che in questi giorni si sono udite anche nelle piazze di Ramallah e di Hebron. Fiumi di gente hanno cominciato ad aprire con la nonviolenza quella porta sbarrata dalla violenza della forza di occupazione. Sono giovani non schierati con alcun partito che chiedono la fine degli Accordi di Oslo e della cooperazione tra l’Anp di Abu Mazen e Israele. I loro slogan gridano un’improbabile «riconciliazione» tra Fatah e Hamas e l’unità tra Cisgiordania e Gaza. Altre manifestazioni invece denunciano il vergognoso veto posto dagli Stati Uniti, qualche giorno fa, alla Risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza dell’Onu nei confronti della colonizzazione israeliana.
Secondo alcuni, potrebbe essere la città di Hebron ad esplodere per prima, essendo ormai insostenibile la pressione dei cinquecento coloni sui duecentomila abitanti palestinesi. Pochi giorni fa, nel 17° anniversario del massacro di 29 fedeli musulmani compiuto daun colono israeliano nella Tomba dei Patriarchi, sono scoppiati scontri fra l’esercito israeliano ed un migliaio di manifestanti palestinesi. I dimostranti, tra i quali attivisti stranieri e israeliani, hanno denunciato la chiusura permanente di Via Shuhada, una delle arterie commerciali di Hebron. E anche a Gaza la tensione aumenta. Israele continua a bombardare dal cielo mentre la gente affronta una crisi umanitaria sempre più difficile. Ce l’ha testimoniato un volontario la mattina del 1 marzo durante l’Eucarestia celebrata davanti al muro dell’apartheid: “I tunnel con l’Egitto sono tutti chiusi. Le strade di Gaza sono vuote perchè non c’è più una goccia di carburante. Non vorremmo fosse questa la goccia che fa traboccare il vaso…”
Certo, dall’immenso carcere che è oggi la Palestina, con lo sguardo fisso sulle ruspe che anche in queste ore distruggono le case e le speranze dei palestinesi, appare chiarissimo che che la Piazza Tahrir palestinese si sta riempiendo lentamente perché il complesso sistema di oppressione quotidiana israeliano si è perfezionato con gli anni e appare inviolabile.
Quanto ancora dovrà soffrire questo popolo provato da un’oppressione centenaria, prima della definitiva convocazione nella sua piazza della liberazione?
E l’inizio sarà anche stavolta nella stessa piazza Al Manara che a Ramallah ha visto tutte le intifade, oppure nella buffer zone della prigione di Gaza su cui muoiono anche in queste settimane ragazzini e contadini?
Sarà forse la piazza virtuale di internet, assai più veloce della strada tra Nablus e Jenin?
Tante le domande. Una la certezza: “not for ever”.

Nandino Capovilla, Campagna Ponti e non muri, per Bocchescucite

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