REDAZIONE 27 NOVEMBRE 2013
di Norman Solomon – 25 novembre 2013
Più che mai Israele è isolato dall’opinione mondiale e da quell’entità vischiosa nota come “la comunità internazionale”. Il governo israeliano continua a condannare l’accordo sul nucleare iraniano che, secondo ogni parametro razionale, è un passo positivo di allontanamento dalla minaccia di una guerra catastrofica.
Nell’immediato, le reazioni bellicose del primo ministro Benjamin Netanyahu sono destinate a produrre un effetto negativo sulla maggior parte dei media statunitensi. Ma Netanyahu e le forze che lui rappresenta hanno solo iniziato la lotta. Vogliono la guerra all’Iran e sono decisi a esercitare la loro forza politica, da tempo estesa nella maggior parte della dirigenza di Washington.
Anche se è improbabile che tale forza possa smontare l’accordo iniziale di sei mesi raggiunto con l’Iran lo scorso fine settimana, sono già in corso sforzi per danneggiare e demolire i negoziati lungo il loro cammino. In Campidoglio gli attacchi più intensi arrivano dai Repubblicani, e anche alcuni Democratici di spicco hanno fatto del cecchinaggio contro l’accordo raggiunto a Ginevra.
Un timore diffuso è che possa essere fissato un qualche precedente politico che mini la leva “filo-israeliana” sulle decisioni del governo statunitense. Tale è intrinseca nelle reazioni negative di Netanyahu (“un errore storico”), dei legislatori Repubblicani come il capo del Comitato della Camera sui Servizi Segreti Mike Rogers (“un passo falso che consente di continuare l’arricchimento”) e il senatore Saxy Chambliss (“li abbiamo lasciati scappare dalla trappola”) e dei legislatori Democratici, come il presidente del Comitato del Senato sulle Relazioni con l’Estero Robert Menendez (“questo accordo non riduce in misura proporzionale il programma nucleare iraniano”) e il senatore Charles Schumer (“non appare proporzionato”).
Netanyahu e molti altri israeliani – così come l’ariete lobbistico statunitense AIPAC e molti con mentalità simili nei media e nella politica statunitense – temono che la capacità di Israele di conservare influenza sui decisori della politica a Washington abbia cominciato a eclissarsi. “Il nostro compito è di essere quelli da tenere al corrente”, ha dichiarato domenica alla radio dell’esercito israeliano il potente ministro delle finanze israeliano Yair Lapid. “Dobbiamo far sì che gli statunitensi ci ascoltino come ci hanno ascoltato in passato”.
Nel corso di questo inverno e della prossima primavera il governo israeliano e i suoi alleati certamente spareranno a mitraglia nei settori dei media e della politica statunitensi con un intenso fuoco di sbarramento di messaggi. “Israele integrerà la sua diplomazia pubblica e privata con altri strumenti”, ha riferito lunedì da Gerusalemme il New York Times. “Numerosi dirigenti e analisti hanno detto qui che Israele scatenerà l’industria dei suoi servizi segreti per evidenziare violazioni previste dell’accordo provvisorio”. Traduzione: Israele farà tutto quanto in suo potere per minare la prossima fase dei negoziati e impedire una risoluzione pacifica della disputa sul programma nucleare iraniano.
Guardando avanti, da un punto di vista politico pratico, il governo degli Stati Uniti può attuare una grande svolta politica in Medio Oriente senza almeno un’accettazione riluttante da parte del governo israeliano? Tali domande vanno dirette al cuore dell’occupazione israeliana, oggi nel suo quarantasettesimo anno.
Israele continua a costruire insediamenti israeliani illegali nella West Bank; la soppressione dei fondamentali diritti umani del popolo palestinese continua quotidianamente su vasta scala nella West Bank e a Gaza. Non c’è motivo per aspettarsi qualcosa di diverso a meno che il principale patrono politico, militare ed economico di Israele, gli Stati Uniti, non schiacci l’acceleratore e si rifiuti di sostenere tali politiche riprovevoli.
Discorsi simili risultano abominevoli per quelli che sono convinti che gli Stati Uniti debbano servire da favoreggiatori delle politiche israeliane. Ma in ogni caso in cui tali politiche sono sbagliate, il governo USA dovrebbe smettere di favorirle.
I duraturi ostacoli a una simile interruzione sono oggi un po’ meno elevati, ma restano enormi. Oggi non meno che in passato, come ha detto William Faulkner, “Il passato non è morto. In realtà non è nemmeno passato.” Questo si applica sicuramente alla storia della conquista e del mantenimento di un sostegno statunitense inequivocabile a Israele.
I gruppi statunitensi ad alto impatto di oggi, come l’AIPAC (che si autodefinisce “la lobby statunitense filo-isrealiana”), i Cristiani Uniti per Israele (“la più vasta organizzazione filo-israeliana negli Stati Uniti, con più di un milione di membri”, secondo il Jerusalem Post) e gruppi simili hanno costruito 65 anni di vasto e riuscito sostegno a Israele negli Stati Uniti.
Parte integrante delle fondamenta del loro lavoro è stata la premessa di mutualità e compatibilità degli interessi israeliani e statunitensi. Fino alla fine della Guerra Fredda, la propaganda di routine dipingeva gli aiuti a Israele come un modo per ostacolare il potere sovietico nella regione. Specialmente dopo l’11 settembre il sostegno statunitense a Israele è stato qualificato come sostegno a un prezioso baluardo contro il terrorismo.
Fin dalla riuscita campagna del 1947 per forzare l’Assemblea Generale dell’ONU ad approvare la partizione della Palestina, i leader israeliani si sono coordinati strettamente con le organizzazioni ebraiche statunitensi. I rappresentanti del governo d’Israele negli Stati Uniti incontrano regolarmente dirigenti di vertice dei gruppi ebraici statunitensi per trasmettere loro ciò che Israele vuole e per identificare i dirigenti statunitensi chiave che gestiscono i temi relativi. Tali incontri hanno compreso discussioni sulle immagini di Israele da promuovere presso il pubblico statunitense, con espressioni che ci sono familiari, come “far fiorire il deserto” e “avamposto della democrazia”.
Come è ben consapevole ogni membro del Congresso, le donazioni elettorali e i messaggi mediatici continuano a nutrire dirigenti pubblici cooperativi e solidali con Israele. Ai rari detentori e cercatori di cariche che spiccano come non collaborativi o insufficientemente solidali, è applicata una ricetta scontata: negazione delle donazioni elettorali, sostegno agli avversari e campagne di denigrazione mediatica. Tali correttivi politici si sono dimostrati efficaci lungo il percorso, servendo da storie di ammonimento per i politici che potrebbero essere tentati di uscire troppo dai ranghi.
Il forte Comitato Ebraico-Statunitense decise nel 1953 che nel proprio sostegno a Israele “nella misura massima vanno utilizzati come portavoce organizzazioni non ebree e non settarie”. Tale approccio strategico ha prodotto frutti per il progetto complessivo di sostegno a Israele negli Stati Uniti. E’ sperimentato nel tempo e maturo; distribuire diffusamente messaggi attraverso organizzazioni della maggior varietà politica ed esperienza nel toccare quasi tutti i media rilevanti.
Quest’anno i leader israeliani hanno intensificato le loro violente propagande sull’Iran come prossimo Terzo Reich genocida e su Israele come protettore assente degli ebrei durante l’Olocausto. Per alcuni il tema è emozionalmente potente. Ma non deve essere consentito che impedisca una soluzione diplomatica della disputa con l’Iran sul nucleare.
Da oggi fino all’estate prossima, la lotta a proposito del dialogo con l’Iran sarà feroce e fatale. Tutti i segnali puntano ai decisi tentativi di Israele – e dei suoi principali alleati negli Stati Uniti – per far affondare le prospettive di una soluzione pacifica.
Norman Solomon è il direttore fondatore dell’Institute for Public Accuracy e autore di “War Made Easy: How Presidents and Pundits Keep Spinning Us to Death” [La guerra spiegata al popolo: come i presidenti e i guru continuano a manipolarci a morte].
Abba A. Solomon è autore di “The Speech, and Its Context: Jacob Blaustein’s Speech ‘The Meaning of Palestine Partition to American Jews’ Given to the Baltimora Chapter American Jewish Committee, February 15, 1948” [Il discorso e il suo contesto: il discorso di Jacob Blaustein ‘Il significato della partizione della Palestina per gli ebrei statunitensi’, tenuto il 15 febbraio 1948 alla sezione di Baltimora del Comitato Ebraico-Statunitense].
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2013 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0
http://znetitaly.altervista.org/art/13252
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