Sono passate alcune settimane dall’uccisione di Juliano Mer Khamis, l’attore al cento per cento ebreo e al cento per cento palestinese che aveva riaperto il Teatro di Arna. Il teatro dei bambini e dei ragazzi del campo profughi di Jenin. Un luogo nascosto, ai più. Non certo un luogo raccontato, come le città palcoscenico della narrativa. Perché ambientare una storia a Jenin, luogo dimenticato, per nulla affascinante…
Eppure, Jenin, il campo profughi, conserva la stessa dignità di altri luoghi. A Jenin si può fare non solo teatro. Anche letteratura.
Forse è per questo che Mornings in Jenin, il romanzo di Susan Abulhawa, ha avuto tanto successo, nel mondo. Tanto che quel paragone con il Cacciatore di Aquiloni, un “cacciatore di aquiloni in versione palestinese”, non è per nulla posticcio. Un successo dovuto soprattutto al passaparola, al responso dei lettori piuttosto che all’influenza della critica.
Il romanzo di Susan Abulhawa è un’immersione totale, dolorosa nella storia palestinese degli ultimi sessantatre anni. E’ un bagno nel dolore, nella sofferenza, nelle facce impietrite delle donne, nelle madri a cui è stata staccata la carne dei figli. Dalla Jenin che accolse i profughi del 1948 alla Jenin del 2002. Dai profughi alla diaspora. La umanizzazione di un popolo, coperto – come molti arabi, negli ultimi anni – da un grande stereotipo che ne annulla persino i tratti somatici. Le rughe dei volti.
Questo racconto corposo, ambizioso, a tratti molto commovente è ora anche in italiano Da oggi, per la precisione. Ogni Mattina a Jenin, edizioni Feltrinelli. E Susan sarà in Italia, a breve.
Questa è l’intervista che ho fatto a Susan Abuhawa, pubblicata su Saturno, l’inserto culturale del Fatto, con un titolo molto bello, Mia madre si chiama Palestina.
Occhi neri, allungati, penetranti come lame. Di quelli che, in Palestina, si vedono spesso. Sono gli occhi di una bambina con una mano nella tasca del giubbotto, e l’altra stretta alla sua maestra. Una piccola studentessa in uniforme blu, immortalata in una vecchia fotografia dell’inizio degli anni Ottanta, sulle scale del Dar el Tifl. E’ la Casa dei Bambini, il più famoso orfanotrofio di Gerusalemme est. Quell’orfanotrofio reso celebre, recentemente, da Miral, il film di Julian Schnabel tratto dal libro di Rula Jebreal.
Non hanno perso profondità, quegli occhi, nel viso di Susan Abulhawa, l’autrice del romanzo palestinese da anni più diffuso nel mondo, tra pochi giorni anche sugli scaffali delle librerie italiane, col titolo Ogni mattina a Jenin (Feltrinelli). Lo hanno paragonato al Cacciatore di Aquiloni versione palestinese: un ponderoso viaggio famigliare nella storia dura e dolorosa di un intero popolo, diviso tra terra, rifugio, esilio “C’è una parola araba che esprime il senso di una vita così lontana dalla propria terra. Ghorba, una parola che ha in sé il significato di straniero. Quando penso all’esilio penso che ciò che rimane del legame con la propria terra è contenuto tutto dentro al cuore, rafforzando ciò che si è. Quello che manca sono le piccole cose fisiche”. La lingua, o il caffè, per esempio. Susan Abulhawa mostra la mug di caffè americano, sul tavolo della sua casa americana: immagine sgranata, via skype. Non è caffè arabo, di quelli ristretti, neri, saada, come si usano fare in Palestina. E il profumo di cardamomo non arriva al di là dell’Atlantico.
La generazione alla quale appartiene Susan Abulhawa è diversa da quella di Edward Said e di Mahmoud Darwish, icone dell’esilio palestinese. Cantori di un legame con la propria terra che si è interrotto di netto a un certo punto della vita. L’autrice di Ogni mattina a Jenin è nata in Kuwait, nella cosiddetta Piccola Palestina, quando già c’era stato il secondo strappo, la Guerra dei Sei Giorni. Nata da profughi della guerra del 1967, la Abulhawa ha cominciato il suo peregrinare negli Stati Uniti, per poi tornare a Gerusalemme, frequentare il Dar el Tifl, e poi varcare di nuovo l’Atlantico. Eppure, il senso di “appartenenza” alla Palestina è profondissimo. Inscindibile. È quello che, nel romanzo, viene descritto da Hassan Abulheja, il padre della protagonista, Amal. Profugo del 1948, costretto a fuggire da un paese agricolo vicino a Haifa, e rifugiarsi appena oltre la Linea Verde, a Jenin. “Veniamo dalla terra, le diamo il nostro amore e il nostro lavoro, e lei in cambio ci nutre. Quando moriamo, torniamo alla terra. In un certo senso, le apparteniamo. La Palestina ci possiede e noi apparteniamo a lei.”
“E’ così”, dice Susan Abulhawa. “E’ un senso di appartenenza che è molto nella sfera della emotività. Ed è un senso che con l’andare degli anni diventa sempre più intenso. Soprattutto dopo essere divenuta madre”. È l’umanità a venire prima di qualsiasi dimensione politica. “Palestina significa mia nonna, i proverbi, le canzoni tradizionali, la terra. Gli alberi”.
Certo, però, è altrettanto impossibile separare l’appartenenza all’identità palestinese dalla dimensione politica. “La Palestina è la mia memoria, e assieme ad essa la Palestina sono i diritti, le violazioni, la dignità umana calpestata, la storia cancellata”. Un intreccio, quello tra terra, storie individuali e memoria collettiva, che costituisce – peraltro – proprio la trama di un romanzo che si dispiega lungo tutte le tappe della contemporaneità palestinese, dalla Nakba del 1948, la catastrofe per i palestinesi e la nascita dello Stato, per gli israeliani, sino alla seconda intifada, passando per l’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est, per le violenze, per l’esilio, per il terrorismo. Tutto visto con gli occhi palestinesi, riappropriandosi di una narrativa spesso invisibile e misconosciuta.
Soprattutto se poi, a raccontare le ferite di un popolo e di un esilio, sono gli occhi delle madri, e delle figlie divenute a loro volta madri. Non è un caso. Per Susan Abulhawa (la scrittrice) “la Palestina è una madre, salda e perseverante”. Per Susan Abulhawa (la donna) il suo esilio “non è solo l’esilio da un paese, ma da quella famiglia coesa che io non ho mai avuto. Una doppia espropriazione”.
Susan Abulhawa, Ogni mattina a Jenin, Feltrinelli Editore
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