Open Shuhada Street!

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Su e giù per la strada. Camminano gli americani pensionati, camminano i palestinesi di Hebron, sostano i soldati israeliani.  Su e giù per la strada, in una fittizia, straniante, liberatoria passeggiata.

I volontari: uomini e donne anziani che si turnano di tre mesi in tre mesi perché vogliono esserci. Vogliono stare e andare, in silenzio. Tutto perché camminare è vivere, è poter affermare “possiamo sempre calpestare insieme questo suolo”. Che diventa di tutti, che ritorna luogo di incontro.

Con semplicità i volontari non fanno altro che far ripartire il movimento, come se fosse un gioco, quasi fossero ragazzini che con un fischio invitano gli amici assonnati a scendere, a riprendere le scorribande spensierate lasciate in sospeso.  Coraggio: giù per la strada! Il luogo di tutti.

I pensionati-che-non-prendono-il-fresco-al-supermercato soffiano la vita in coloro che non credevano più possibile giocare al gioco della strada. E questi li seguano, tra il timore e la meraviglia. Ma i soldati no, i soldati stanno. Il loro gioco consiste nel rimanere ingabbiati dentro mostri di ferro utilizzando ‘fionde’ micidiali.(…)

Nulla è cambiato a Hebron, anzi. Nel 2005 scrivevamo queste parole, attoniti, sconvolti eppur raggianti di fronte all’azione gandhiana messa in atto dai palestinesi di questa città assediata insieme agli anziani volontari internazionali del CPT. Sconvolti, come tutti quelli che hanno camminato lungo la via puù grande e più bella di Hebron, Shuhada Street, e hanno visto i negozi sprangati, la strada deserta, le bandiere israeliane sventolare sprezzanti dall’alto, al di sopra della griglia delle immondizie, che racchiudeva in un unico, nauseabondo, sprezzante gesto il senso di sopraffazione con cui i coloni, protetti dai soldati, tenevano sotto scacco il cuore di un’intera città. In barba a qualsiasi legge, a qualsiasi senso di umanità.

Raggianti, di fronte alla libertà coinvolgente dell’azione intrapresa da uno sparuto gruppo di persone che, sfidando scarponi e fucili, invitava la gente a non aver paura, a uscire, ad abitare i propri spazi con il sorriso e la tenacia della nonviolenza creativa. E ancora, sette anni dopo. Lo sconforto e la gioia.

Tutto è come allora. Forse peggio di allora. Ma, come allora, che chi resiste e invita a non mollare. Zleikha Muhtaseb, donna palestinese residente in Shuhada Street, ha scritto una lettera aperta e ha lanciato una campagna, “OPEN SHUHADA STREET”: “ Molte persone potranno chiedersi perché abbiamo bisogno che Shuhada Street sia riaperta. Collegando la parte nord della città con quella a sud, costituisce una delle arterie più importanti di Hebron (Al-Khalil). Non solo: mette in comunicazione i residenti. Quando Shuhada Street è stata chiusa e presidiata dall’esercito israeliano per proteggere i coloni che si erano insediati, molte persone sono state private della loro vita sociale, dal momento che i loro familiari e amici non vogliono essere fermati ai check-point o lungo il corso del tragitto, quando decidono di far visita a chi vi abita. In passato poi, quando ancora era possibile accedervi, si trattava di una distanza percorribile a piedi, mentre oggi occorre fare il giro di diversi chilometri intorno alla città, per raggiungere l’abitazione e la famiglia dove si vuole andare a far visita. Adesso le persone ci pensano dieci volte prima di pianificare una visita a qualche famiglia in Shuhada Street: si deve, infatti, tenere in considerazione il tempo necessario per arrivare lì, oltre che il denaro che si spenderà per il trasporto. Quando la strada è stata chiusa e si perdeva lungo tempo ai check point, molti hanno perso il lavoro e le opportunità di guadagno ora sono molte meno di prima, per questo ci si pensa bene prima di spendere soldi.

La casa dove vivo si trova a Shuhada Street, ma non posso usare l’ingresso principale, perché sono palestinese. I miei vicini, palestinesi, hanno creato un’apertura nel muro, un passaggio che mi permette di non rimanere prigioniera nella mia stessa casa. Infatti, vivo a casa mia come fossi in una prigione. Per proteggermi dai “regali” dei coloni – le pietre che tirano costantemente contro casa mia – ho dovuto ricoprire i miei balconi con recinti di filo spinato. Prima che li mettessi, non potevo aprire le persiane. Ma se per sbaglio le dimenticassi aperte, riceverei immediatamente i “regali” dei coloni. Le pietre continuano ad essere lanciate, ma non mi colpiscono come prima, e le ho usate per decorare il mio giardino e scrivere la parola “pace” in arabo.”

Per questo vi invitiamo a diffondere anche nella vostra città l’annuale manifestazione che chiede l’apertura di Shuhada Street. Anche solo informando le persone, volantinando questa notizia. Per questo, anche da lontano, dobbiamo far sentire tutto il nostro appoggio a chi, come ZleiKha, ha deciso che deve trasformare le pietre dell’odio e dello scherno, le pietre lanciate, in selciato. Affinchè, come scrivevamo anni fa immaginando che parlassero i saldali, possiamo convincere soldati e coloni che “Non così, non così si celebra la vita a vent’anni”. ’Umiliatevi’, soldati, avvicinate la fronte a questa vostra e nostra madre terra. Toglietevi l’elmetto, da bravi, così. Ed ora accostate la vostra guancia imberbe al suolo. Sentite: è caldo di vita e di sole. E poi appoggiate l’orecchio e ascoltate: un sommesso, vibrante scalpiccio vi invita alla danza…”

E già sentiamo che anche per il Primo Marzo (Un Ponte per Betlemme), da nord a sud dell’Italia si stanno organizzando momenti di sensibilizzazione e preghiera (unponteperbetlemme@gmail.com )E se l’idea per esempio del gruppo Restiamo Umani, è quella di fare un Flash Mob con la più famosa danza palestinese, allora dovremo trasformare le nostre piazze e la nostra terra in una grande danza che invoca la pace. Così useremo Face Book e il Flash Mob per intonare da tutta Italia un’unica invocazione di pace. Per mettere in movimento più persone possibili.

In un’unica danza, in un’unica piazza, un’unica strada.

E grideremo: Open Shuhada Street

BoccheScucite

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