14 dic 2017
Il giornalismo italiano nella questione israelo-palestinese. Recensione di Angelo Stefanini del libro “Il Muro della Hasbara” (Zambon editore) di Amedeo Rossi, con prefazione di Moni Ovadia. “Per una democrazia” sostiene Noam Chomsky, “la propaganda è quello che è il randello per uno Stato totalitario”
di Angelo Stefanini
Roma, 14 dicembre 2017, Nena News – “Chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato”. È lo slogan che sintetizza perfettamente il meccanismo psicologico di controllo della realtà che nella neo-lingua coniata da George Orwell viene chiamato “bi-pensiero”. Nel mondo distopico descritto nel romanzo 1984, il Partito del Grande Fratello può contare su di una popolazione ciecamente fiduciosa nei dettami del Partito grazie al suo totale controllo sul passato. Tale controllo è talmente assoluto da potere dichiarare che un determinato avvenimento non sia mai successo: nel momento in cui tutti i documenti circolanti riportano la medesima storia imposta dal Partito, allora “la menzogna diventa verità e passa alla storia”.
Nella realtà attuale le cose non vanno in modo molto diverso. Edward Bernays, conosciuto come il “padre delle pubbliche relazioni” (PR), l’inventore della propaganda a fini commerciali e politici, parlava di un “governo invisibile” che è il vero potere dominante del mondo reale: si riferiva al giornalismo, ai media. “Per una democrazia,” sostiene il celebre teorico della comunicazione Noam Chomsky, “la propaganda è quello che è il randello per uno stato totalitario”.
Più comunemente, le notizie che ci raggiungono quotidianamente attraverso i media esercitano un’influenza potente sulla nostra percezione, dicendoci quali eventi siano importanti e modellando la nostra comprensione dei problemi. Per questo motivo, il controllo delle immagini e delle parole usate per raccontare le guerre moderne, in particolare il conflitto israelo-palestinese, è diventato un elemento essenziale. Che per Israele tale controllo sia decisivo l’ha ammesso candidamente l’ex Console Generale di Israele a New York, Alon Pinks: “Siamo attualmente in conflitto con i palestinesi e impegnarsi in una campagna di pubbliche relazioni di successo è una componente della vittoria in quel conflitto”.
Dopo il disastro d’immagine che fece seguito al massacro di Sabra e Shatila in Libano nel 1982, Israele decise di creare una struttura istituzionale permanente per condizionare come il mondo vede il Medio Oriente. Nacque così il Progetto Hasbara’ (ebraico per “spiegazione”) che la rivista indipendente israeliana online +972 Magazine definisce come “una forma di propaganda rivolta a un pubblico internazionale… allo scopo di influenzare il discorso in un modo che raffiguri positivamente l’operato e le politiche israeliane, comprese le azioni intraprese da Israele nel passato. Spesso, ne risulta anche un ritratto negativo degli arabi e in particolare dei palestinesi.”
Un modo di “influenzare” il discorso può essere, per esempio, attraverso uffici stampa talmente efficaci a diffondere i loro comunicati che un giornalista potrebbe rimanere seduto a scrivere articoli nel proprio ufficio a New York o a Roma senza dover sprecare tempo o energia immergendosi nella pericolosa realtà. Oppure, per contrastare le critiche, utilizzare schiere di “guardiani” che tengano sott’occhio e facciano pressione su giornalisti e mezzi di comunicazione. Esistono organizzazioni pro-israeliane (per es. http://honestreporting.com/) che “controllano” in modo molto efficace giornalisti e editori premendo affinché la narrazione dei fatti sia “obiettiva”. Esistono poi gruppi di pressione che organizzano campagne e inviano lettere a redazioni e agenzie di stampa chiedendo di boicottare testate editoriali, di modificare articoli o licenziare i colpevoli. Tristemente famoso è il caso del direttore dell’importante rivista medica The Lancet preso ferocemente di mira per aver pubblicato, durante l’assalto israeliano di Gaza del 2014, una “Lettera aperta al polo di Gaza” in cui Israele era accusato di crimini di guerra.
Il tutto diventa così contorto nel panorama del conflitto israelo-palestinese che la mancanza d’informazione, l’assenza d’immagini, la scarsità di analisi, il vuoto di voci che descrivano l’esperienza dei palestinesi sotto occupazione è talmente vasto che la gente non ha nemmeno l’idea che da cinquanta anni in quelle terre si stia consumando la profonda ingiustizia di una occupazione militare e una progressiva colonizzazione condannate più volte dalla comunità internazionale. Ne consegue che i media tendono a non mostrare le sofferenze che i palestinesi stanno sopportando, non aiutano realmente a comprendere gli orrori dell’occupazione, non manifestano nessuna empatia, non trasmettono le immagini di una donna incapace di raggiungere l’ospedale per partorire o di neonati che muoiono perché bloccati a un checkpoint. Se la gente non vede tutto questo non può avere la percezione ne’ provare il turbamento della sopraffazione.
È di tutto questo che tratta il libro di Amedeo Rossi. L’autore collabora con un gruppo che si dedica alla traduzione in italiano di articoli di giornali pubblicati in Israele o su mezzi d’informazione palestinesi, che poi sono inseriti nel sito Zeitun.info. Questa attività gli permette di accedere a fonti, leggere e diffondere scritti che raccontano una versione della situazione molto diversa da quella diffusa dai media a larga circolazione. Ciò che Rossi porta avanti è una preziosa opera d’informazione alternativa che ha lo scopo di compensare almeno in parte il profondo divario tra le opposte narrazioni.
Da questa sua esperienza è nato il libro Il muro della Hasbarà. Il giornalismo embedded de «La Stampa» in Palestina. Sulla scia di ricerche analoghe e di lavori fondamentali come quelli di Noam Chomsky o di Greg Philo specificamente su Israele, Rossi si propone di “analizzare i meccanismi attraverso i quali il discorso filo-israeliano viene trasmesso ai lettori” cercando “forme di controinformazione e di denuncia che aiutino a smascherare l’operazione di fiancheggiamento”, insomma gli effetti dell’hasbara’. E lo fa in modo eccellente utilizzando come caso di studio il quotidiano “La Stampa”.
Il libro prende di mira più in generale quella che nella Prefazione Moni Ovadia definisce con l’ossimoro di “libera stampa embedded”, la stampa che vuole apparire rispettabile pilastro dell’establishment presentandosi come oggettiva, equidistante e asettica. È ciò che il famoso inviato di guerra John Pilger in modo beffardo descrive come “professional journalism”. Proprio quello che Amedeo Rossi espressamente dichiara NON essere la sua ricerca, affermando: “chi scrive è schierato dalla parte dei palestinesi”. “Il pericolo per i media “, chiarisce con una delle numerose citazioni di Jerome Bourdon, storico della comunicazione dell’università di Tel Aviv, “non è quello di fare delle scelte, ma di negare che le fanno”.
Tra la Prefazione e la Post-fazione scorrono l’Introduzione e cinque capitoli. Nei primi tre l’autore prende in esame in ordine cronologico l’operazione “Piombo fuso” (cap.1), l’attacco alla Freedom Flottilla e il massacro sulla nave Mavi Marmora (cap.2) e l’operazione “Margine protettivo” (cap.3). Il corposo cap.4, che occupa circa la metà dell’intero libro, è dedicato all’analisi de “Il conflitto a bassa intensità”. Gli innumerevoli e dettagliati esempi citati lungo tutto il percorso di analisi degli articoli del quotidiano trovano una sintesi conclusiva nel cap.5 che documenta in modo impeccabile come “a dispetto di ogni verosimiglianza, la versione fornita dai portavoce ufficiali israeliani viene costantemente riportata dai mass media”, soprattutto quelli italiani a cominciare da La Stampa.
Ciò che questo lavoro esemplare aiuta a svelare è l’importanza di cogliere non solo cosa c’è nella storia, ma, soprattutto, quello che non c’è. In questo senso l’assenza di una informazione è vitale tanto quanto la sua presenza in termini di come le persone danno un significato alla storia stessa. Il contesto è tutto. Il contesto che spesso manca nel racconto della “libera stampa embedded” è che la rivolta palestinese è il risultato di 50 anni di brutale occupazione e di 70 anni di continua Nakba (“catastrofe”) palestinese. Quando questi fatti non sono presenti nella storia, ci mette in guardia Amedeo Rossi, allora la notizia in realtà non ha alcun senso e nasconde una situazione inaccettabile. Questo è il motivo per cui la maggior parte degli occidentali non ha la minima idea di quale sia la storia e la realtà del conflitto.
Con questo coraggioso ed elegante lavoro di ricerca l’autore ci offre, in questi tristi momenti della vita dei palestinesi, una lettura indispensabile per comprendere come sia possibile che uno Stato che continua a violare il diritto internazionale, ignorando con arroganza decine di risoluzioni di condanna delle Nazioni Unite, possa essere dalla maggioranza dell’opinione pubblica ancora considerato il bastione della democrazia nel Medio Oriente, ed essere servilmente celebrato con l’offerta di ospitare l’inizio del Giro ciclistico d’Italia.
Un consiglio di ordine “tipografico” per la prossima edizione: arricchire l’Indice con i titoli delle sezioni e sotto-sezioni dei vari capitoli. Sarebbe un importante aiuto al lettore per avere davanti a se’, in un’unica pagina, il percorso analitico che compone la “disamina concreta, puntigliosa, certosina, inattaccabile” condotta al quotidiano La Stampa. Che ne esce nudo e disonorato per la… oggettività perduta. Nena News
OPINIONE. Il Randello della Democrazia
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