Le denunce di “Breaking the silence”, l’organizzazione dei soldati di tsahal, l’esercito israeliano, sui soprusi compiuti durante il servizio militare ai danni di cittadini palestinesi fermati per controlli
di ELIS VIETTONE
HEBRON – “Breaking the silence mente!”: è esplicito l’attacco scritto a caratteri cubitali su uno striscione a pochi passi da uno dei posti di blocco da cui sventola la bandiera con la stella di David, a Hebron, in Cisgiordania. L’accusa, comparsa su decine di manifesti disseminati nella città a 35 chilometri a sud di Gerusalemme, è rivolta a Breaking the silence, l’associazione composta da ex soldati israeliani che hanno denunciato i soprusi compiuti durante il servizio militare ai danni di cittadini palestinesi fermati per controlli, perquisizioni, a volte sequestrati per ore, pestati a sangue o, nel peggiore dei casi, uccisi.
I militari israeliani rompono il silenzio. I racconti degli ex militari – spesso in forma anonima – gettano una luce sinistra sull’attività delle Forze di difesa israeliane (Idf – tsahal, in ebraico) il cui compito è quello di “difendere l’esistenza, l’integrità territoriale e la sovranità dello Stato d’Israele; di scoraggiare tutti i nemici e frenare tutte le forme di terrorismo che minacciano la vita quotidiana”. “Hebron è stato il posto più duro e complicato nel quale abbiamo operato”, spiega uno degli ex soldati che preferisce non identificarsi, “Ancora oggi stiamo facendo i conti con le sconvolgenti situazioni cui abbiamo assistito e per questo abbiamo deciso di parlare. Questa città è a un’ora da Gerusalemme ma lontana anni luce da Tel Aviv”.
I giovani palestinesi volontari per far conoscere l’occupazione. Così, dopo un’inchiesta della trasmissione televisiva HaMakor che mira a dimostrare l’infondatezza delle testimonianze rese da Breaking the silence, la Ong palestinese Youth Against Settlements tenta, con una costante azione di protesta non violenta, di produrre nuove documentazioni e prove dello stato di segregazione cui versano diverse zone, Shuhada Street in particolare. In una città dove più che in ogni altro luogo si vive la separazione netta tra le due culture che non si incontrano mai, sullo sfondo di una diffidenza reciproca insanabile, l’associazione organizza visite guidate da volontari nei “luoghi dell’occupazione”. In un contesto già aspro fondato su decenni di scontri, provocazioni e morti, il quadro è degenerato quando nel 1994 il cittadino ebreo Baruch Goldstein, freddò a colpi di mitragliatrice 29 musulmani, ferendone centinaia, mentre erano in preghiera proprio nella moschea dove si trova la tomba di Abramo, patriarca di ebraismo, cristianesimo e islam, luogo sacro per tutte queste fedi.
La divisione di Hebron. A partire da questa strage, con il protocollo di Hebron, vengono insediati dal governo israeliano diversi presidi. Dal 1997 la città viene divisa in due zone, la H1, 18 chilometri quadrati sotto il controllo dell’autorità palestinese, con 115mila residenti palestinesi, e la H2, 4,3 chilometri quadrati in mano ai militari israeliani, dove vivono 35mila palestinesi e circa 600-800 ebrei. La zona H2 risulta a tutt’oggi rigorosamente isolata da alti cancelli e muri con filo spinato, torri di controllo, cecchini e militari di guardia, e interdetta ai cittadini palestinesi privi di autorizzazione.
La città fantasma. Camminare per le vie di quello che era l’antico mercato, affollato e chiassoso, speziato e colorato, fa un certo effetto. La maggior parte dei negozi e delle botteghe che si affacciano qui sono infatti stati chiusi dalle autorità per “ragioni di sicurezza”. Un tempo polo di fiorenti commerci, celebre per l’abilità e la dinamicità dei suoi mercanti, artigiani e imprenditori, oggi è la sola città, oltre a Gerusalemme, ad avere nel proprio centro storico degli insediamenti israeliani. “La segregazione, la violenza e l’umiliazione con cui abbiamo a che fare tutti i giorni è evidente e basta passeggiare per queste vie per rendersene conto”, spiega a Repubblica Issa Amro, ingegnere e attivista per i diritti umani. Fondatore di Youth Against Settlements, diversi processi nel tribunale militare israeliano, con l’accusa di “minare la sicurezza pubblica” mediante le iniziative dell’associazione. “Nel 2007 uno studio condotto da alcune Ong impegnate sul campo ha rivelato come ben 77 esercizi commerciali fossero stati chiusi e il 43% dei cittadini palestinesi residenti nella zona H2 fosse stato obbligato a lasciare le proprie abitazioni dai militari israeliani, trasformando Hebron in una città fantasma”.
Apartheid e segregazione. “Attualmente qui vigono due complessi di leggi”, prosegue Amro, “Uno per i palestinesi e uno contro di loro, ovvero quello militare, per cui una persona accusata è colpevole fino a prova contraria. Nello stesso territorio la legge che si applica ai cittadini israeliani è la civile mentre quella in vigore per i palestinesi è la militare: questo significa apartheid e rappresenta una continua violazione dei diritti umani”, conclude l’attivista prima di incontrare alcuni visitatori statunitensi, sudafricani e canadesi, qui, nella sede dell’Associazione appena sopra il cimitero musulmano, nell’unica città al mondo in cui nei diversi check point la prima domanda a cui si viene sottoposti è: “Religione?” e in base alla risposta si può percorrere o meno un tratto di strada o attraversare una piazza.
Palestina, HEBRON LA CITTA’ FANTASMA DOVE I MILITARI ISRAELIANI ROMPONO IL SILENZIO SULLE VIOLENZE CONTRO I PALESTINESI
https://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2019/08/03/news/palestina_hebron_citta_fantasma_militari_israeliani_breaking_the_silence-232708908/
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