Report n°1 – Un ponte per Betlemme-2011
Gerusalemme, 26 Febbraio 2011
Primavera in Palestina
Mi fu rivolta questa parola del Signore: “ Che cosa vedi, Geremia? “
Risposi: “ Vedo un ramo di mandorlo “. ( Ger 1, 11 )
I piccoli sono usciti di corsa dalle poverissime tende dell’accampamento del villaggio che i soldati anche ieri sera hanno “visitato” con l’ennesimo ordine di demolizione: la tenda della scuola va smantellata. Stamattina però la Valle del Giordano, fertilissima porzione della Palestina ormai quasi totalmente sottratta al suo popolo, non ha udito assordanti rumori di ruspe, ma la musica dolce e calda della nostra “band” dei The Sun, giovani musicisti che si preparano per il grande concerto internazionale per la pace dell’ 1 marzo a Betlemme. In una realtà segnata da innumerevoli soprusi che rendono impossibile la vita alle migliaia di beduini della valle, qui, dove è stata sequestrata non solo l’acqua ma anche le coltivazioni, le case, il movimento e la vita stessa, è da anni fiorito il ramo di mandorlo della solidarietà internazionale alla resistenza nonviolenta della popolazione.
Cancellare la memoria e’ forse peggio che negare l’identità. Se hai un passaporto israeliano puoi girare dove vuoi. Ma se hai carta d’identità blu o verde, devi chiedere il permesso per muoverti tra un muro ed un check-point o sappi che dovrai rimanere come un ospite in quella che invece è la tua terra. Ma se oltre a te cancellano anche la tua storia, allora è diverso.
Emmaus, il villaggio meta del percorso dei due discepoli che incontrano Gesù. Emmaus, la città di mille catechesi e riflessioni. Arrivarci è un’emozione, ma sapere che al posto delle sue rovine vi hanno costruito un parco per divertimenti e pic-nic, è un pugno nello stomaco! Non basta distruggere villaggi, sminuire tradizioni, umiliare vite umane. Bisogna nascondere la sua storia, tacerne l’esistenza, rimuoverne il ricordo! Benvenuti a Canada Park! Ma anche in questa realtà ecco l’ostinazione del mandorlo: le donne e gli uomini israeliani di Zochrot che non si stancano di ricordare, con i loro cartelli puntualmente divelti, la vera storia di questi villaggi distrutti quarant’anni fa.
Shariq (Partecipazione) è il motto dei giovani palestinesi del villaggio cristiano di Taybeh, che devono affrontare le conseguenze dell’occupazione militare israeliana non solo per la presenza fisica dei soldati ma anche in ogni aspetto della quotidianità. Ciò va dalle limitazioni nella scelta delle facoltà al basso numero degli studenti palestinesi ammessi in esse, con discutibili criteri. Tanto che spesso sono costretti ad andare a studiare all’estero.
E Abuna Raed, il vulcanico parroco di Taybeh, sembra anticipare la primavera che fa fiorire questi rami di mandorlo.
E come non ricordare il nostro arrivo a Tel Aviv. Aeroporto di ultima generazione: spazioso, luminoso, rumori d’acqua e parole sommesse di corpi che si accalcano ai controlli. Sportello per israeliani, sportello per stranieri. I palestinesi non appartengono a queste categorie. Per loro c’è altro. Apartheid, un termine ormai caduto in disuso, ma qui realtà quotidiana. Lungo le strade è facile coglierla con lo sguardo: di qua piantagioni estese di banani, fiori, agrumi, prodotti orticoli, quasi un paradiso terrestre. Sulla sponda opposta aridità, corsi d’acqua ridotti a rigagnoli, sorgenti dove l’acqua è presa, incanalata, resa irraggiungibile da recinzioni, blocchi insuperabili e dirottata verso insediamenti israeliani. Ai palestinesi che portano avanti con caparbietà la lotta per l’esistenza è negato un diritto fondamentale: il ramo di Fatih (leader di Jordan Valley Solidarity Movement) sembra inaridirsi, ma ci sono ancora gemme.
Sulla destra il check-point di Tuba nella valle del Giordano, prima e dopo tanti pesanti minacciosi blocchi di cemento. Lungo la strada recitano “Dangerous – zona di possibile fuoco dell’esercito israeliano” e ti fanno pigiare il piede sull’acceleratore scrutando con sospetto il profilo delle colline sovrastanti. In mezzo una terra sempre più rubata dall’avanzare della colonizzazione. Ma anche qui in questa inesorabile avanzata di insediamenti, rapina di risorse c’è un ramo di mandorlo: è un mandorlo francese che per scelta s’è trapiantato qui. Si chiama Lorraine e ha gli occhi azzurri che vedono lontano. Fa parte del Jordan Valley Solidarity (www.jordanvalleysolidarity.org) che lotta da anni per la salvaguardia dell’eredità palestinese: ricostruire dopo la distruzione e farlo come vuole la tradizione di queste terre di Palestina, promuovere la cultura attraverso la realizzazione di scuole. Questo è il profumo del mandorlo: perché se c’è scuola, potranno esserci altri mandorli
che fioriranno…
Il Signore aggiunse: “ Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla “.
( Ger 1, 12 )
Report n°2 – Un ponte per Betlemme-2011
Betlemme, 28 Febbraio 2011
Liberarci dalla paura
Fra poche ore inizierà una giornata memorabile, quella del 1 marzo, settimo anniversario dell’inizio della costruzione del muro. Punteremo la sveglia nel cuore della notte per essere al check-point di Betlemme. Check-point, varco nel muro, espressione concreta di un apartheid colpevolmente ignorato dalla quasi totalità dei media nazionali. Il muro, ciò che è per moltissimi palestinesi, ogni giorno, l’appuntamento con l’umiliazione. Ciò che è per moltissimi israeliani, ogni giorno, l’appuntamento con l’ennesima ulteriore perdita di umanità.
Mai come oggi è evidente che bisogna chiedere ed esigere lo smantellamento del muro, delle opere corollarie “di difesa” e dei checkpoint. A sostegno di ciò, Sua Beatitudine Michel Sabbath ritiene l’abbattimento del muro un’azione necessaria per liberare Israele dalla paura” e quindi dal fobico bisogno di difendersi.
E la ragione prima dello smantellamento del muro , come dicono le donne di Machsom Watch – organizzazione femminile purtroppo ancora estremamente marginale rispetto alla opinione pubblica israeliana – è l’amore per Israele e per i suoi figli. Gli stessi giovani che abbiamo visto allineati, costretti in giubbotti antiproiettili, con mitra spianati in attesa di marciare in prossimità del Western Wall: nulla potrà restituire loro questi anni di libertà e di gioventù negata. E una nazione come Israele che non può sognare la libertà è un popolo prigioniero, prigioniero di sé stesso…
Palestina
Piccola come Gesù
agli occhi del mondo
in te ora si legge
la vita dolorosa del maestro.
Spalle curve di persone stanche
e oppresse
portano la croce fino al calvario.
Colonie come chiodi
lacerano la tua terra
tenera e aspra.
Filo spinato e muro
cingono il tuo capo
sembri cadere
morire
ma questo non avverrà
ci sono troppi piccoli cuori
che battono per te
che corrono su pascoli
dai colori della pace.
Loro saranno il tuo futuro
la tua resurrezione.
Rosanna
Report n°3.1 – Un ponte per Betlemme-2011
Betlemme, 2 Marzo 2011
Not for ever
Betlemme, 1 marzo 2011. Con la nostra bandiera arcobaleno avevamo fatto solo pochi metri tra il check-point e il muro di Betlemme, ma non siamo sfuggiti al controllo del contractor assoldato da Israele per fare il lavoro sporco in questo girone d’inferno, che dalle 4 del mattino aveva ingoiato nelle sue gabbie migliaia di lavoratori palestinesi. Alzando il mitra si è scagliato contro di noi urlando: “Via quella bandiera!”. Senz’altro non solo gli ordini ricevuti, ma anche le immagini della TV lo spingevano ad intervenire senza troppe esitazioni sulla vittima di turno: una Marcia per la Giustizia, pacifica e silenziosa di quaranta italiani nella Giornata contro il muro del 1 marzo 2011. Essa appariva ai suoi occhi il germe di un’altra epocale manifestazione araba. E l’innocua bandiera per la pace che osavamo ostentare, diventava per lui la pericolosissima miccia di un’altra rivolu-zione… Tunisia, Egitto, Libia, Yemen… Non sarà mica la volta della Palestina?
Certamente la folla di giovani che ha attraversato nella Giornata contro il Muro le strade di Betlemme è stata un segno straordinario di resistenza nonviolenta in questo anniversario voluto dalle suore del Charitas Baby Hospital. Sette anni fa avevano visto entrare nella città della pace non solo la prima lastra del Muro di apartheid, ma anche la più triste conferma dell’arroganza israeliana nel progetto di distruzione del popolo palestinese, letteralmente murato vivo. E, da quel lontano 2004, ogni 1 Marzo centinaia di palestinesi e italiani fanno memoria di questo crimine riempiendo la piazza della Natività. Certo, non è ancora Piazza Tahrir…
In questi giorni in Palestina avevamo sempre sulle labbra -trasformato in domanda da fare a tutti- lo stesso interrogativo del contractor: “A quando la Palestina? E poi ancora, più sommessamente: “E come accadrà?”
Quel singolo militare concentrava in sé la paura di tutti i regimi in questa primavera di liberazione che attraversa e riga nel sangue tutto il mondo arabo, e sempre più evidente si impone una valutazione su di essa: i popoli oppressi che si stanno ribellando non li ferma più nessuno e il potere delle dittature non sarà per sempre!
Ce l’ha confermato Hafez, leader della resistenza nonviolenta nelle South Hebron Hills: “Not for ever! Lo sapevamo, ma ora lo vediamo con i nostri occhi e purtroppo dovremo ancora piangere tanto sangue per la violenza dei regimi che opprimono i popoli”.
Ci ha risposto con lucidità mons. Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme: “Invece di esprimere solo la preoccupazione per il pericolo dell’islamismo, dovremmo sostenere questo movimento di liberazione che ci annuncia: non si torna più indietro. Questo movimento di massa della rivoluzione dei popoli arabi oppressi non lo fermerà più nessuno. Arriverà anche qui in Palestina e purtroppo scorrerà del sangue. E forzerà questa porta sbarrata da troppo tempo. La porta si aprirà con molta violenza, perché i capi sono ciechi. I potenti hanno paura e continuano ad usare solo le loro armi di morte. Le armi dei regimi schiacciano i piccoli e sono inutili. Si accompagnano solo a discorsi vuoti. Guardate in Israele: Netanyahu ormai dice solo parole vuote e nemmeno gli israeliani gli credono più. E’ evidente a tutti che Israele non vuole la pace. Guardatevi attorno: le colonie, i check-point, il muro. Tutto è ormai chiarissimo. Ma ormai il movimento ha iniziato a cambiare le cose. I popoli in rivolta dicono anche a noi palestinesi: cambiare è possibile. E anche voi di Pax Christi dovrete continuare ad accompagnare e sostenere questa coalizione nonviolenta per la pace e la giustizia”.
Percorrendo le strade di Palestina, ascoltando e discutendo con la gente, ci rendiamo conto che il primo problema siamo noi, più che i popoli arabi. Siamo noi occidentali che non ci siamo accorti di quello che da anni stava covando in tutti i mondi arabi. Lo scontro con il potere stava tessendo attraverso internet una trama sempre più fitta che i nostri giornalisti, diplomatici e politici non volevano vedere e che oggi sono costretti ad ammettere. Soprattutto non hanno capito che la lotta dei giovani diventava cultura di dissenso, e ciò poi è esploso con la forza di una rivoluzione.
Pane e rose è stata e continua ad essere la richiesta comune a tutti questi popoli. Non solo pane! Ma sviluppo, dignità e libertà.
Quelle stesse richieste che in questi giorni si sono udite anche nelle piazze di Ramallah e di Hebron. Fiumi di gente hanno cominciato ad aprire con la nonviolenza quella porta sbarrata dalla violenza della forza di occupazione. Sono giovani non schierati con alcun partito che chiedono la fine degli Accordi di Oslo e della cooperazione tra l’Anp di Abu Mazen e Israele. I loro slogan gridano un’improbabile «riconciliazione» tra Fatah e Hamas e l’unità tra Cisgiordania e Gaza. Altre manifestazioni invece denunciano il vergognoso veto posto dagli Stati Uniti, qualche giorno fa, alla Risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza dell’Onu nei confronti della colonizzazione israeliana.
Secondo alcuni, potrebbe essere la città di Hebron ad esplodere per prima, essendo ormai insostenibile la pressione dei cinquecento coloni sui duecentomila abitanti palestinesi. Pochi giorni fa, nel 17° anniversario del massacro di 29 fedeli musulmani compiuto da un colono israeliano nella Tomba dei Patriarchi, sono scoppiati scontri fra l’esercito israeliano ed un migliaio di manifestanti palestinesi. I dimostranti, tra i quali attivisti stranieri e israeliani, hanno denunciato la chiusura permanente di Via Shuhada, una delle arterie commerciali di Hebron. E anche a Gaza la tensione aumenta. Israele continua a bombardare dal cielo mentre la gente affronta una crisi umanitaria sempre più difficile. Ce l’ha testimoniato un volontario la mattina del 1 marzo durante l’Eucarestia celebrata davanti al muro dell’apartheid: “I tunnel con l’Egitto sono tutti chiusi. Le strade di Gaza sono vuote perchè non c’è più una goccia di carburante. Non vorremmo fosse questa la goccia che fa traboccare il vaso…”
Certo, dall’immenso carcere che è oggi la Palestina, con lo sguardo fisso sulle ruspe che anche in queste ore distruggono le case e le speranze dei palestinesi, appare chiarissimo che che la Piazza Tahrir palestinese si sta riempiendo lentamente perché il complesso sistema di oppressione quotidiana israeliano si è perfezionato con gli anni e appare inviolabile.
Quanto ancora dovrà soffrire questo popolo provato da un’oppressione centenaria, prima della definitiva convocazione nella sua piazza della liberazione?
E l’inizio sarà anche stavolta nella stessa piazza Al Manara che a Ramallah ha visto tutte le intifade, oppure nella buffer zone della prigione di Gaza su cui muoiono anche in queste settimane ragazzini e contadini?
Sarà forse la piazza virtuale di internet, assai più veloce della strada tra Nablus e Jenin?
Tante le domande. Una la certezza: “not for ever”.
Nandino Capovilla,
Campagna Ponti e non muri, per Bocchescucite
Report n°3.2 – Un ponte per Betlemme-2011
Mercoledì 2 marzo 2011
Due lati della stessa medaglia
Martedì primo marzo, una giornata campale.
All’alba con tutto il gruppo di Pax Christi abbiamo cercato di donare un sorriso alle centinaia di persone palestinesi ammassate per attraversare il muro e a mezzanotte abbiamo donato un momento di allegria ai militari che presidiavano lo stesso muro.
Due lati della stessa medaglia: israeliani e palestinesi non sono altro che delle persone umane.
Al mattino dentro di me si era formata rabbia nei confronti degli israeliani per questa ingiustizia che stanno perpetrando nei confronti dei palestinesi e alla sera dello stesso giorno quel sentimento è mutato in compassione.
Non potrà mai allontanarsi dalla mia mente quel momento. Eravamo una decina sul pulmino con abuna Mario che doveva riportarci all’albergo, ma nel tragitto decise di fare una deviazione e di portarci a vedere il muro: muro però chiuso.
Lui sorrise e urlò ai militari di aprire e una volta raggiunto il check-point alzato il volume della radio per far sentire loro la musica chiese se volevano ascoltarla direttamente dalla band.
Mi chiesi se fosse impazzito, se avesse perso il lume della ragione, ma mi resi conto che loro accettavano di buon grado e quindi: tutti fuori.
I the Sun prepararono i loro strumenti e cominciarono a suonare con entusiasmo e Agnese, Graziella, Donatella e io seguivamo loro con il battito delle mani: battito che sembrava quello del nostro cuore stretto nella morsa della paura e che si apriva verso quei cinque ragazzi poco più che maggiorenni che ballavano e canticchiavano la musica armati di mitragliatore.
Uno spettacolo incredibile.
Mi chiesi cosa stavamo facendo e poi mi resi conto che stavamo applicando la teoria della resistenza non violenta, stavamo dicendo loro che noi eravamo lì ma non per fare la guerra.
Quei militari israeliani indottrinati non sanno cogliere i segni del tempo che ora sfiora le loro vite ma che un giorno verrà segnata drammaticamente.
La musica unisce e mi auguro unirà questi due lati della stessa medaglia.
Elena e Agnese
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