PALESTINA, LA CRISI DEL LAVORO

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Aumentano i disoccupati, diminuiscono gli impiegati in agricoltura. A Gaza, l’unica domanda di lavoro arriva dal governo locale. In Cisgiordania la confisca delle terre dissangua il settore agricolo e le donne sono costrette al lavoro nero e sottopagato.

EMMA MANCINI

Beit Sahour (Cisgiordania), 12 settembre 2011, Nena News (nella foto, lavoratori palestinesi in attesa di attraversare il checkpoint di Betlemme per entrare in Israele, fonte MaanImages)– Aumenta la disoccupazione, cala il numero di impiegati in agricoltura, cresce il numero di coloro che si autoescludono dall’offerta di lavoro a causa delle difficoltà a trovare un impiego, prospera il lavoro nero. Questo il contesto in cui si rispecchia oggi l’economia palestinese, a due settimane dalla richiesta di indipendenza alle Nazioni Unite. Un’economia debole affetta dall’estrema debolezza della forza lavoro palestinese e dalla dipendenza dal mercato del lavoro israeliano.

I dati parlano chiaro. Secondo il report pubblicato dal Ministero del Lavoro palestinese questo settembre e riguardante le statistiche dell’anno 2010, dei 4,05 milioni di palestinesi residenti tra Gaza e Cisgiordania, la potenziale forza lavoro è rappresentata dal 58,39%: persone con un lavoro ufficiale, giovani sopra i 15 anni (età minima di accesso al mondo del lavoro, secondo la legge palestinese del 2000) e disoccupati in cerca di un impiego. La grande maggioranza della forza lavoro palestinese è di stanza in Cisgiordania (64,6%), il 25,3% nella Striscia di Gaza e il 10,1% in Israele e nelle colonie.

A preoccupare è il crescente tasso di disoccupazione. Alla fine del 2010, il dato è salito al 33,3%. Esattamente un terzo della forza lavoro in Palestina non ha un’occupazione. I contesti peggiori sono quelli dei campi profughi, dove il tasso supera in media il 30%, e dei distretti di Hebron (25%) e di Betlemme (24,7%).

Pesante la situazione nella Striscia di Gaza: se in Cisgiordania il tasso di disoccupazione è pari al 26,6%, nella Striscia vola al 40,5%. “L’assedio e l’embargo israeliano contro la Striscia – ha spiegato Amira Zuheir Mustafa, coordinatrice delle relazioni esterne dell’associazione palestinese Democracy and Workers’ Rights Center – hanno determinato una crescita esponenziale della disoccupazione. Dopo l’Operazione Piombo Fuso, quasi la totalità delle fabbriche di Gaza è andata distrutta. Ed è praticamente impossibile riavviare l’economia privata interna a causa della mancanza di materie prime, materiali di costruzione, materiali per il processo produttivo”.

Questo spiega l’elevato tasso di occupati negli uffici dell’Autorità Palestinese. Se in Cisgiordania i dipendenti pubblici rappresentano il 16,9% degli occupati, a Gaza si tocca quota 47%. I bombardamenti quotidiani e l’embargo imposto dalle autorità di Tel Aviv stanno seriamente impedendo lo sviluppo di un’economia privata nella Striscia e quindi la domanda di lavoro, per ora rappresentata quasi esclusivamente dall’Autorità Palestinese.

Una donna palestinese impegnata nella raccolta delle olive, principale risorsa agricola in Cisgiordania

Ma a cambiare nel corso degli anni è stata anche la struttura del mercato del lavoro in Cisgiordania: “Prima della Seconda Intifada – ha proseguito Amira Mustafa – la forza lavoro palestinese era per lo più impiegata in Israele nel settore delle costruzioni o in Cisgiordania in agricoltura. La terra ha da sempre rappresentato la nostra maggiore ricchezza. Con lo scoppio della Seconda Intifada nel 2000 e la reazione violenta israeliana, tutto è cambiato in peggio. Le autorità israeliane hanno chiuso la Cisgiordania, hanno costruito il Muro di Separazione e hanno compiuto arresti indiscriminati”.

Restrizioni al movimento e azioni militari che hanno drammaticamente danneggiato il mercato del lavoro palestinese. “Prima di tutto, i palestinesi impiegati in Israele, in particolare, nel settore edile sono drasticamente diminuiti a causa della politica dei permessi (nel 1987 erano 180mila, nel 2000 125mila, nel 2002 17mila e nel 2010 sono saliti di nuovo  a 71.710, ndr). Inoltre la costruzione del Muro è stata portata avanti attraverso la confisca selvaggia di terre agricole palestinesi: ciò ha provocato la perdita della principale risorsa economica a disposizione. Se a questo si aggiunge, il controllo totale che Israele esercita sulle risorse idriche, fondamentali al settore agricolo, si capisce perché oggi i palestinesi impiegati in agricoltura sono solo il 10% del totale”.

“Dalla Seconda Intifada in poi – ha spiegato l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem – Israele ha imposto dure restrizioni al movimento dentro e fuori i Territori Occupati, impendendo all’Autorità Palestinese di controllare risorse finanziarie vitali. Così, la mancanza di risorse ha aumentato la dipendenza palestinese dai salari guadagnati lavorando in Israele. Prima del 2000 il tasso di disoccupazione palestinese era fermo al 10%. Quando la Seconda Intifada è iniziata, è salito a livelli mai visti: nel 2007 ha raggiunto per la prima volta quota 20%, mentre i palestinesi che avevano un impiego non avevano garantito uno standard di vita dignitoso, a causa dei bassi salari che mantenevano la famiglia sotto la soglia di povertà. Una situazione che si trascina fino ad oggi”.

Ma non solo. Durante la Seconda Intifada, l’esercito israeliano ha stretto le manette ai polsi ad un numero consistente di uomini in età lavorativa, tagliando alla base le fonti di entrate economiche di moltissime famiglie palestinesi. “Gli arresti prolungati hanno prodotto un aumento dell’occupazione femminile – ha continuato Amira Mustafa – ma non in senso positivo. Non è incrementato il numero di donne inserite nel mercato del lavoro legale, ma quello di donne che per mantenere la famiglia sono state costrette a lavorare in nero, sottopagate e senza alcuna protezione sociale né diritti”. Nena News

http://www.nena-news.com/?p=12678

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