PEACE, PEACE, PEACE: Si pronuncia “pace”, si legge… “a pezzi”

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Betlemme, 11 ottobre,

ma contemporaneamente Nablus, 11 ottobre, e Bir Zeit, 11 ottobre: i pullman pieni di italiani raggiungono le città e i villaggi dei Territori Occupati di solito meta solo dei pochi internazionali che si ostinano ancora a denunciare l’occupazione attraverso la resistenza quotidiana dei palestinesi. Ma stavolta un convegno sulla questione palestinese davvero non avrebbe avuto senso, “dentro” le sale di infinite analisi sulla complessità del conflitto, “al chiuso” delle decennali disquisizioni davvero insopportabili per chiunque veda con i suoi occhi il baratro di umanità sull’orlo del quale ci ha trascinato l’apartheid creato dallo Stato d’Israele.

Se poi sono più di 400 ad averlo capito, allora la Tavola per la Pace ha fatto davvero bene a far arrivare fino a Gerusalemme la tradizionale Marcia Perugia-Assisi. E certamente piu’ dei momenti ufficiali, e’ stato l’entrare in Gaza di una consistente delegazione il momento piu’ alto dell’intera esperienza. A nome dei 400 pacifisti (ostinatamente insistiamo a non far sparire questo termine) siamo penetrati nella piu’ grande prigione a cielo aperto del mondo, sconvolti dalla scia di sangue di un massacro da 1400 morti e indignati per l’impotenza della comunità internazionale ad ottenere giustizia per un terrorismo di stato macchiatosi di “crimini di guerra valutabili come crimini contro l’umanità” (Rapporto Onu sul massacro di Gaza).

“Time for responsabilities” e’ stata l’occasione per interrompere la discussione sul processo di pace e andare fisicamente sotto il muro dell’apartheid per sentirsi schiacciati insieme a milioni di palestinesi; l’occasione per metter da parte le analisi sul terrorismo -“il pretesto più grande per continuare l’occupazione” l’ha definito Flavio Lotti- per provare ad entrare attoniti nelle colonie che ormai sono dappertutto e che Obama da solo non potrà fermare.

La Tavola per la pace, pur istituzionalmente preoccupata di non schierarsi troppo, stavolta non ha potuto proprio trattenersi dalla denuncia inequivocabile di un’ingiustizia che ha un nome solo: l’occupazione israeliana dei Territori Palestinesi. Certo, il programma della Marcia ha alternato con accurata diplomazia la presenza ora vicino all’una ora all’altra parte, “perchè vogliamo ascoltare entrambi i popoli”, ma logicamente, scegliendo di portare più di 400 persone a vedere come stanno realmente le cose, non poteva astenersi dal sentirsi impegnata dalla parte delle vittime di questa ingiustizia (per non confonderle con i carnefici), dell’oppresso (per non confonderlo con l’oppressore), e del popolo occupato (per non confonderlo con l’occupante).

BoccheScucite, seguendo i “lavori” della Marcia, ha apprezzato soprattutto questa immersione nella scandalosa voragine di una terra che viene di ora in ora stravolta da un elaborato sistema di “distruzione di massa” che non poteva non riempire di punti esclamativi gli appunti dei convegnisti. E’ accaduto fin dalle prime battute, quando in un teatro di Betlemme, le centinaia di italiani che avevano appena cominciato a respirare la straordinaria atmosfera della Terra santa, i suoi sapori e la sua dolcezza, sono stati letteralmente paralizzati dai dati sul massacro di Gaza, a pochi chilometri da qui, che la rappresentante delle Nazioni Unite Alegra Pacheco trasferiva dal suo pc direttamente alla nostra coscienza e al nostro cuore, facendo bruciare dentro il “time for responsabilities”.

“Questa è la prima parola che riesco a dirvi, ancor prima dei saluti di rito -ha esordito la Pacheco- Gaza sta davanti a noi come un incubo. Un assedio totale che c’era ben prima dell’attacco di dicembre e un embargo che continua sempre più aspro anche oggi!”.

In tanti abbiamo osservato l’unica persona imbarazzata della sala, lì, proprio sul palco, tra le autorità. L’unica che mentre la rappresentante dell’Onu accumulava denunce pesantissime a chiarissime condanne di Israele per crimini contro l’umanità regolarmente impuniti, faceva uscire dall’altro orecchio quello che il microfono gracchiante penetrava dentro tutti i presenti. Il viceconsole italiano incarnava ciò che non sopportiamo più: davvero non si può più tacere! Non è più il tempo delle giustificazioni concesse all’oppressore offrendo il fianco ad un massacro in atto. Non sopportiamo più queste inguardabili figure della diplomazia che paghiamo per lavorare in mezzo a questo inferno e che astutamente fingono che non esista un’occupazione militare, un apartheid, delle precise responsabilità da richiamare. “It’s time for responsabilities!”. Diplomazia e media.

Più volte lo scrosciare di applausi ha firmato questo disappunto: dobbiamo alzare la voce e denunciare l’informazione da vomito (scegliamo un’espressione volutamente disgustosa perchè la misura è ormai colma da tempo…) che i nostri media ci obbligano a vedere insieme allo scandalo di una rappresentanza diplomatica che serve solo a difendere e sostenere il perverso meccanismo di oppressione che invece dovrebbe denunciare. Mentre ancora una volta pubblicamente riconosciamo il prezioso straordinario servizio di Filippo Landi attraverso Rai3 e di altri rari esempi di professionalita’ giornalistica, non possiamo dimenticare la vergogna provata solo pochi mesi fa, qui da Betlemme: questi stessi diplomatici invitati nel salotto di Bruno Vespa allestito per la visita del Papa, sostenevano in diretta che “gli insediamenti non sono illegali di per sé ma oggetto di futuri accordi di pace” e che i settecento chilometri di muro sono “una barriera provvisoria necessaria per difendere dal terrorismo” ecc. ecc.

Sarà perchè la misura della nostra indignazione verso i media è al limite dell’insurrezione, che una suora presente in sala all’apertura della Marcia, mentre il gelo calava su tutti di fronte alla descrizione delle armi di distruzione di massa usate contro i civili da Israele a Gaza, e’ saltata sulla poltrona sbottando: “Quando finiranno di darci come notizia un asino dipinto da zebra invece di mostrarci che ne è dei più di cinquemila feriti a Gaza?” E quando don Mario Cornioli si e’fatto coraggio ed e’ andato a dire al signor Claudio Pagliara che proprio non gli piacciono i suoi servizi al telegiornale, il giornalista embedded della Rai gli ha risposto: “Mi dispiace per lei padre ma la realtà è questa”. Per fortuna abouna Mario ha incalzato: “mi dispiace per lei visto che io vivo in Terra santa e so bene che la situazione non è quella che lei racconta!”.

Ma Bocchescucite non si è accontentata di seguire i lavori del Convegno. Anche quest’anno riportiamo un report del team di Pax Christi che si e’ ripromesso di condividere la quotidiana lotta di resistenza delle donne e uomini palestinesi attraverso la raccolta delle olive (HANNO DETTO). Fortunatamente sempre più persone comprendono che in questa terra è urgente venire non da pellegrini distratti ma da compagni di lotta e di sopravvivenza, per condividere la casa (spesso sotto ordine di demolizione da parte di Israele), il lavoro della raccolta della olive (spesso minacciato dalla violenza dei coloni che ne tagliano radici e storia!), la protesta contro il muro e la colonizzazione (spesso taciuta da chi è imbevuto della propaganda dei nostri media!). Per questo non bastano i convegni e bisogna inoltrarsi più profondamente nella terra violata della Palestina, arrivando nei più dimenticati villaggi dove l’acqua è sempre più scarsa e le colline verdeggianti ricordano con sfrontatezza a chi appartiene veramente la palestina: non ai suoi abitanti ma a chi da più di quarant’anni la occupa illegalmente. Dovra’ essere soprattutto uno, per noi, il contenuto principale del documento finale e delle decisioni che la Marcia prendera’: basta con l’occupazione della Palestina!

“Ho paura che anche stavolta si avrà paura di disturbare troppo l’impunità di cui gode universalmente e da sempre Israele -ci ha confidato in questi giorni un’anziana donna di Ramallah- smentendo il proposito di assumersi le proprie responsabilità. Dite anche voi, che avete raccolto insieme alle olive anche le sofferenza di questa gente, che la parola pace in inglese si pronuncia esattamente come quella che significa “pezzi”…ed io penso che purtroppo continuiamo a ripetere “Peace, peace, ma la pace è ormai in pezzi!

Vogliamo, pretendiamo e faremo tutto quello che potremo ancora inventare, per superare una volta per tutte l’atteggiamento irresponsabile di chi, angosciato delle possibili accuse di antisemitismo, senza accorgersi appoggia e maschera l’oppressione. Per oltre uno slogan indovinato, la chiamata alla responsabilità richiede coraggiose denunce e non prudenziali abbottonamenti. Esige voce alta e forte, come quella di Mons. Michel Sabbah (HANNO DETTO) per dare subito una risposta aquella massa di disperati che abbiamo incontrato a Gaza e che ci ripetevano: fate presto! Prima che sia troppo tardi! Cosi’ il Patriarca emerito, senza esitazione: “La cosa più evidente è che qui viviamo tutti secondo il diritto del più forte e nessuno osa intervenire per fare pressione su Israele. Se volete veramente aiutarci non abbiate paura di compiere azioni decisive. Altrimenti continuerete solo a organizzare conferenze sulla pace ma la pace non la costruirete mai”.

BoccheScucite

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