Più della solidarietà
Sapevamo che avremmo incontrato il dolore, eravamo pronti ad accettarlo se questa era la via stretta per entrare nella storia di un popolo, incontrare le singole persone, le loro piccole e grandi storie di una resistenza quotidiana, essere testimoni delle incredibili umiliazioni di cui i palestinesi sono vittima, per le strade, nei cortili delle case della vecchia Gerusalemme e nelle vie strette e degradate del campo profughi di Shuafat.
Ma nei loro occhi non abbiamo visto l’umiliazione ma tanta forza e dignità, che sono un nobile esempio per tutti noi. Dawoud che non si stanca di ripercorrere con i gruppi solidali le vie della città che osiamo ancora definire tre volte santa. Salim che, nonostante tutto, ha deciso di non andarsene, di continuare a lottare nel suo campo, di portare aiuto ai più deboli. Una grande testimonianza di amore, di coraggio, di dignità. Ancora più forte di una testimonianza di fede.
Come far fronte a tanta ingiustizia? Siamo noi che dobbiamo capire che è la banalità di un certo modo occidentale di vivere quello che dobbiamo smettere. Siamo noi che dobbiamo imparare da loro che ogni respiro, ogni movimento, ogni gesto – che a noi è possibile senza limitazione di libertà – deve essere vissuto con la coscienza che non a tutti è data, va vissuto con una responsabilità da riscoprire e condividere. Qui in Palestina tutto va conquistato nella resistenza quotidiana fatta di piccoli gesti come abbracciare i figli che, nonostante tutto, hanno voluto. Guardarli in faccia, offrire loro la speranza di una vita degna sulla propria terra, nella propria casa, perchè c’è un papà ed una mamma che resistono per loro e li proteggono.
“Come si fa a vivere così?” Noi pellegrini di tutti a raccolta rispondiamo a tanti sorrisi con il nostro sorriso, ma teniamo gli occhi bassi quando la rabbia e l’indignazione vorrebbero uscire da noi con uno sguardo di odio verso l’occupante che vediamo nello sguardo di superbia del colono e nella crudeltà del sorvegliante soldato giovane al quale hanno lavato il cervello per renderlo un robot senza sentimenti. Se non lo fanno loro, come possiamo permetterci noi di farlo?
Abbiamo paura di abituarci a queste clamorose violazioni dei diritti e della dignità delle persone costrette nelle loro piccole case contese all’occupante, coi bambini senza spazi per giocare, prigionieri a casa loro. Un esempio,
il quartiere di Hebron dove si vendeva l’oro in ricche botteghe è diventato una discarica dei coloni sionisti ed il tetto di quelle botteghe un campo da basket per i giovani coloni ed uno spazio per i bambini degli occupanti che hanno un asilo lì riservato solo a loro.
“Parlare del dolore non è facile. Il dolore si vive”. Abbiamo paura di tornare a casa e di non poter restituire con le sole parole e le foto le emozioni e le riflessioni che stiamo provando: come faremo ad evitare di mandare a quel paese chi ci chiederà “ dai , raccontami il viaggio”.
Poi siamo arrivati a Deisheh,
siamo entrati nel centro culturale del campo profughi ed abbiamo avuto l’incontro più bello e confortante che ci ha risollevato lo spirito, siamo stati accarezzati dal suono dolce dell’arabo cantato da un coro di bambini e bambine che diceva “prendi questa mano e diventeremo fratelli “. Si comincia da piccoli a rispondere con la forza della dignità offesa, ma non spezzata, come accade ai pastori di At Tuwani
con i quali abbiamo condiviso il pasto che hanno scelto di non raccogliere da terra il sasso che i coloni di Ma’on tirano sulle teste dei loro figli sul sentiero che li porta a scuola.
Grazie popolo palestinese in questi giorni ci hai dato tanto, più della nostra solidarietà che vogliamo portarti.
Dheisheh, 3 novembre 2014
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