Per amore di Israele

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Tutti sappiamo che Obama, da solo, non riuscirà a cambiare la politica americana, da sempre impegnata a difendere ad occhi chiusi la decennale e criminale opera dello Stato d’Israele nell’occupazione e colonizzazione della Palestina.
 
Ma non mancano i segni di un progressivo cedimento in questo colossale sostegno operato soprattutto attraverso le lobby filo-israeliane. In questi giorni fa parlare di sé l’unica lobby filo israeliana progressista, J Street, che collega una serie di associazioni della sinistra favorevole alla nascita di uno stato palestinese. Ne ha parlato diffusamente Michelangelo Cocco (Il Manifesto 25 ottobre): “Questo gruppo di pressione, con 22 impiegati e un budget di 3 milioni di dollari, sfida il potentissimo American Israel public affairs committee (Aipac), il gruppo d’interessi (oltre 70milioni di dollari di cassa) che finora ha agito come unico rappresentante della comunità ebraica statunitense. E’ estranea alla nostra mentalità italiana l’enorme influenza di queste lobby, che condizionano tutta la vita politica, ad ogni livello. Pensate che a questa “lobby buona” fanno riferimento 325 organizzazioni di base che lavorano sotto l’ombrello della Campagna statunitense per la fine dell’occupazione israeliana, e da contributi come quello dato dall’ex presidente Carter col suo libro “Palestine, peace not apartheid”».
 
I massacri di Gaza del dicembre scorso e il governo di ultra destra insediatosi in Israele hanno provocato quello che viene definito «un grande cambiamento del discorso su Palestina e Israele negli Stati Uniti». Una virata che però non sarebbe possibile senza la nascita negli ultimi anni di associazioni ebraiche che non si definiscono «per Israele, per la pace», come J Street, ma «pro diritti umani, pro uguaglianza e anti-occupazione».Un fermento riassunto dalla copertina del numero in edicola del settimanale The Nation, che titola: «Gli ebrei americani ripensano Israele»”. Non solo diritto di critica, quindi, ma finalmente un’opinione pubblica che non accetta più di dover conformarsi al pensiero unico che, a tutte le latitudini del mondo, garantisce ad Israele che mai e poi mai verrà giudicata per un suo atto, pur mostruosamente riprovevole come il massacro di Gaza.
 

Su questa stessa linea ci scrive l’amico Luigi Fioravanti:
 Goldstone è ebreo, ma il governo Israeliano è furibondo contro di lui, accusandolo di essere il peggiore degli antisemiti. In una conferenza stampa al Palazzo di Vetro Goldstone ha detto: “sono ebreo, ho legami con Israele, e sono stato profondamente deluso” dall’atteggiamento israeliano nei miei confronti in questa vicenda, “penso che quello che ho fatto sia nell’interesse di Israele”. Anche la Rete Ebrei contro l’Occupazione critica la politica di Israele e chiede la fine dell’Occupazione dei territori palestinesi che dura da 42 anni. Non per odio contro Israele, ma per amore di Israele, per amor di giustizia”.  “Non bisognerebbe mai confondere la critica con l’odio. Criticare non vuol dire odiare: il padre che critica il comportamento del figlio non lo fa per odio; come lodare non vuol dire amare: spesso la lode è adulazione, per interesse e opportunismo. Ma tant’è, questo malcostume è molto diffuso: chi critica il governo italiano passa per antitaliano, chi quello americano per antiamericano, chi la chiesa per anticlericale, chi Israele per antisemita; e via esemplificando. Confondendo la critica con l’odio si risponde a degli argomenti – su questi si basa la critica- con l’insulto, l’offesa, ottenendo diversi (riprovevoli) risultati: si evita di entrare nel merito delle questioni, si volge la discussione in rissa (cosa che vediamo tuttodì sulla nostra televisione), si cerca di screditare l’interlocutore.Questa tecnica, direi questa politica, è usata in modo sistematico dai governi israeliani, che bollano per antisemita chiunque critica o denuncia la loro politica nei confronti dei Palestinesi. Così sono accusati di essere antisemiti ebrei come Jeff Halper, Ilan Pappe, Zvi Schuldiner, Uri Avnery, Gideon Levy, Daniel Barenboim, Moni Ovadia; donne come Amira Hass, Nurid Pelet; gruppi e associazioni pacifiste israeliani come B’tselem, Yesh Gvul, l’Icadhd, Families Forum, Gush Shalom, i refusenik, i soldati israeliani che si rifiutano il servizio militare nei territori palestinesi occupati; associazioni di ebrei americani come la neonata J Street che sono a favore della pace; associazioni italiane come le Donne in Nero e la Rete-Eco, la rete degli ebrei italiani contro ’occupazione. In modo particolare il governo israeliano, in questi giorni, si è scagliato contro Richard Goldstone, ex giudice della Corte Costituzionale del Sud Africa e ex procuratore dei tribunali penali internazionali per l’ex Jugoslavia e il Ruanda, che ha indagato, per conto dell’Onu, sui crimini di Gaza ed ha redatto il rapporto che porta il suo nome (approvato dal Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu a Ginevra il 16 ottobre scorso). Il rapporto Goldstone accusa Israele (ma anche Hamas) di “gravi violazioni del diritto internazionale”, “attacchi deliberatamente sproporzionati e volti a punire, umiliare e terrorizzare la popolazione civile”, “crimini di guerra e contro l’umanità”. La prestigiosa rivista The Lancet stima che durante l’operazione israeliana “Piombo Fuso” su Gaza (22 dicembre 17 gennaio) siano state riversate sulla Striscia di Gaza un milione e mezzo di tonnellate di esplosivo che hanno provocato 600.000 tonnellate di macerie, 1400 morti (40% bambini); il numero dei feriti gravi è di 5.450; molte scuole sono state ridotte in macerie, tra cui l’American School of Gaza, 40 moschee, alcuni ospedali, vari edifici dell’ONU ed ovviamente 21mila case, di cui 4 mila sono state rase al suolo. Circa 100mila persone sono divenute improvvisamente senzatetto.

 

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