Perché i palestinesi non vinceranno mai

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23 GIUGNO 2013 – 12:55

Slow news di Ugo Tramballi

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Fatto fuori Salam Fayyad, la vecchia cricca di Fatah ha eliminato anche il suo successore. Cooptato dal presidente Abu Mazen come primo ministro, Rami Hamdallah ha dato le dimissioni dopo aver scoperto che avrebbe avuto il solo potere di entrare nel suo ufficio la mattina e uscirne la sera. Era troppo anche per un carneade come lui, professore per bene di un’università minore della West Bank.

  Hamdallah era un indipendente come Fayyad ma Fatah non vuole più personalità che non siano una stretta emanazione del loro potere. Sono due le tragedie del popolo palestinese: essere occupato da Israele ed essere guidato dal partito fondato in Kuwait da Arafat e da alcuni amici di lotta nel 1959 Nel gruppo c’era anche Abu Mazen. Fatah ormai non è che un partito corrotto dal suo stesso potere: una specie di Psi senza Tangentopoli.

  Non è tuttavia per questo che i palestinesi non vinceranno mai, che non avranno mai uno Stato indipendente, territorialmente governabile. Le colpe della loro classe politica sono poca cosa rispetto alle colpe degli americani. Alla presunzione di essere quello che gli Stati Uniti non sono: l’honest broker, il mediatore equidistante del conflitto palestinese.

 Due esempi. Il ministero della Difesa israeliano sta cercando di ottenere dal governo americano la garanzia per un credito miliardario a basso interesse per l’acquisto di nuove, sofisticatissime armi. Questo oltre ai regolari 3,1 miliardi annui di Foreign Military Financing, garantiti fino al 2017 nonostante i tagli lineari alla Difesa americana.

  Ne hanno il diritto: l’alleanza strategica fra i due Paesi è strettissima. Nel suo ultimo viaggio in Israele anche Barack Obama ha ribadito il suo “impegno incondizionato” per la sicurezza d’Israele, dopo qualche tempo di incertezza.

  Il problema è che mentre alla Difesa chiedevano nuove armi a prezzo stracciato, altri uffici dello stesso ministero approvavano la costruzione di mille appartamenti in due insediamenti ebraici nei Territori occupati: 500 a Bruchin e 675 a Itamar. Le due Colonie sono oltre il muro, nel cuore della West Bank. Tutti gli insediamenti sono immorali per ogni valore civile e illegali per la legge internazionale. Ma Bruchin lo è particolarmente.

 Bruchin, infatti, è un avamposto di quelli nati alla fine degli anni Novanta con il dichiarato proposito di impedire la nascita di uno Stato palestinese. Come tutti gli avamposti doveva essere smantellato. Invece un anno fa il governo ha avviato una pratica di legalizzazione retroattiva: l’avamposto non è più un avamposto. Non è nemmeno una colonia. E’ un ridente e operoso villaggio israeliano.

  Mentre il ministro della Difesa Moshe Ya’alon cercava di convincere gli americani a essere extra-generosi, un suo vice Danny Danon – un noto reazionario – dichiarava in un’intervista al sito Times of Israel, che il governo sicuramente bloccherebbe qualsiasi accordo di pace che prevedesse uno Stato palestinese.

  L’alleanza fra Stati Uniti e Israele ha una dimensione etica e umana che non si può ignorare: trascende gli aspetti geopolitici. Fino agli anni Sessanta l’America non era solo un Paese segregazionista ma anche antisemita. Tuttavia, affermando il suo impegno alla sicurezza d’Israele, Barack Obama inseriva questa promessa nel negoziato con i palestinesi: per incoraggiare il governo Netanyahu a prendere qualche rischio per fare avanzare la pace. Un portavoce si era subito affrettato a chiarire che non si trattava di “una questione di questo per quello: non ci sono pressioni ma speranze”.

  Perché non pressioni? Perché una superpotenza che sta già ampiamente garantendo la sicurezza di Israele e si appresta a elargire altri miliardi di mutuo a tasso stracciato, non può imporre all’alleato di mostrare la sua volontà di pace? Perché di fronte all’ennesima provocazione di nuove case in due insediamenti, una portavoce del dipartimento di Stato, Jen Psaki, risponde solo: “Certamente consideriamo questo come controproducente”?

  Negli Stati Uniti c’è una grave dicotomia fra Casa Bianca e dipartimento di Stato da una parte, e Campidoglio dall’altra. I primi sanno come va il mondo. Non c’è presidente o segretario di Stato, democratico o repubblicano, che intimamente non detesti Netanyahu e il Likud. Sulla collina della camera dei Rappresentanti e del Senato, invece fingono d’ignorare la realtà: è più facile trovare qualcuno a favore di uno Stato palestinese nell’insediamento di Ma’ale Adumim che lassù, in fondo al Mall di Washington. Non lamentiamoci della mediocrità dei nostri deputati: quelli americani non sono migliori. Dicono che la loro amicizia per Israele è “ferrea e incondizionata”. Pochissimi conoscono lo Stato ebraico al di fuori dei viaggi di propaganda che organizzano il governo israeliano e l’Aipac, la lobby di Washington. Non conoscendo davvero l’amico che proclamano di avere, non possono chiedersi se un vero gesto di amicizia non sia garantire la sicurezza e allo stesso tempo fa ragionare Israele. C’è un popolo, quello palestinese, che ha dei diritti. E ce n’è uno, quello di Israele, che va aiutato a non costruire la sua autodistruzione.

 

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