Perché Israele deve scegliere il negoziato

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Magari per il caldo o più facilmente perché siamo sempre di corsa, fatto sta che, ogni volta che scrive uno de tre famosi “scrittori pacifisti” israeliani, si ripete immancabilmente lo stesso inganno mediatico che rafforza la convinzione della maggioranza di italiani: “Ecco, vedi! Non è vero che gli israeliani sono contro i palestinesi!”. Ci vorrebbe sempre una…bocca scucita come il nostro amico Luigi Fioravanti, che, dopo aver letto bene il testo, prenda carta e penna e metta in evidenza almeno qualcuna delle affermazioni ambigue del mitico pacifista di turno…

Perché Israele deve scegliere il negoziato di Abraham B. Yehoshua

La campagna condotta da Israele contro l’iniziativa palestinese per ottenere il riconoscimento di un proprio Stato all’Assemblea delle Nazioni Unite il prossimo settembre è a mio parere politicamente e moralmente scorretta e connessa alla questione del riconoscimento internazionale dei confini del 1967.
Permettetemi di riassumere brevemente una storia forse poco conosciuta alla maggior parte dei lettori italiani. Nel novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu, che comprendeva un terzo dei Paesi oggi membri, votò la fine del mandato britannico in Palestina.
E votò, nel contempo, la creazione di due diversi Stati: uno ebraico – Israele -, e uno arabo – la Palestina. L’area assegnata a questi due Paesi era più o meno la stessa. Lo Stato ebraico sarebbe stato costituito da circa 14 mila chilometri quadrati di territorio (per metà desertico) e quello palestinese da più o meno 13 mila.
I palestinesi respinsero categoricamente tale decisione, lanciarono attacchi contro gli insediamenti ebraici e nel maggio 1948, dopo la proclamazione della nascita di Israele, sette Paesi arabi invasero il nuovo Stato per annientarlo. Israele non solo si difese dagli attacchi che minacciavano di distruggerlo ma nello slancio della guerra le sue forze penetrarono nel territorio destinato alla futura Palestina (sul quale, nel frattempo, aveva preso il controllo la Giordania) e dopo l’armistizio del 1949 ne annesse circa la metà. Vennero così stabiliti i cosiddetti confini «del 1967» (o meglio, del 1949) riconosciuti dalla comunità internazionale e all’interno dei quali il territorio di Israele si estende per 20.000 chilometri quadrati mentre quello della Palestina (Striscia di Gaza e Cisgiordania) per 7.000.
Nel 1967 Israele fu attaccato da Egitto e Giordania e durante la successiva Guerra dei Sei giorni conquistò i rimanenti territori palestinesi: la Cisgiordania, allora sotto dominio giordano, e la Striscia di Gaza, in mano all’Egitto. Quest’ultima è ora governata dai palestinesi di Hamas mentre la Cisgiordania è ancora in mano israeliana. La decisione dell’Assemblea generale a settembre riguarderà sostanzialmente la questione territoriale del futuro Stato palestinese mentre, a quanto pare, non farà riferimento al ritorno dei profughi, alla smilitarizzazione, a Gerusalemme Est come capitale di tale Stato, e, naturalmente, al futuro degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Temi che dovranno essere discussi nel corso di negoziati diretti.
Il riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 sancirà dunque la decisione presa dalle Nazioni Unite nel novembre 1947 riguardo alla partizione della regione, sostenuta a suo tempo da Israele e alla base della sua legittimità internazionale. Se quindi il governo di Gerusalemme è sincero nel voler riconoscere uno Stato palestinese – come ha ripetutamente dichiarato – perché si oppone tanto alla prevista risoluzione di settembre? Penso che l’unica ragione sia il riferimento ai confini del 1967.
Il governo israeliano intende annettere parti della Cisgiordania, sia per via degli insediamenti lì presenti che per i vincoli storici con luoghi sacri agli ebrei. Dobbiamo però renderci conto che il territorio del futuro Stato palestinese (soltanto un quarto dell’intera regione) è il minimo di quanto spetta al suo popolo. E la tesi di Israele secondo la quale i confini del 1967 sarebbero indifendibili è problematica. È ovvio che lo Stato ebraico va assolutamente protetto da eventuali aggressioni ma tale protezione non sarà assicurata da insediamenti civili nel cuore della popolazione araba né dall’annessione.
Solo basi militari, israeliane e internazionali, lungo il Giordano, al confine orientale del futuro Stato, potranno fronteggiare eserciti arabi che vogliano introdursi in Palestina per attaccare lo Stato ebraico. E potrebbe anche essere necessario dislocare postazioni di sorveglianza internazionali e israeliane in punti strategici per garantire che le forze armate palestinesi non si armino con artiglieria pesante. Tutte queste misure non intaccherebbero l’identità nazionale palestinese (così come le basi militari straniere in Europa e in altre regioni durante la Guerra Fredda). Una presenza militare è sostanzialmente temporanea e un domani, mutate le circostanze, sarà possibile rimuoverla. Viceversa i civili israeliani in enclave all’interno dello Stato palestinese sarebbero una costante provocazione che rinfocolerebbe odio e dissenso.

L’eventualità di una folla di civili palestinesi, tra cui donne e bambini, che si riversano nelle strade di villaggi e città per manifestare in maniera nonviolenta (come avviene ultimamente in vari Paesi arabi) contro avamposti e insediamenti israeliani in Cisgiordania dopo la decisione dell’Onu a settembre mi inquieta molto. L’Anp saprebbe tenere a bada tali manifestazioni? E cosa farebbe Israele? Invierebbe l’esercito per reprimerle con la forza? E gli estremisti israeliani come reagirebbero a quelle proteste dinanzi alle loro case?
Un simile scenario potrà essere evitato se il governo di Israele sosterrà a settembre la risoluzione delle Nazioni Unite e avvierà subito negoziati diretti su tutte le questioni controverse, come lo ha esortato a fare il Presidente degli Stati Uniti.

Lettera al Direttore de La Stampa di Luigi Fioravanti

A proposito dell’articolo di Yehoshua “Perché Israele deve scegliere il negoziato” mi permetto di osservare alcune imprecisioni e alcune omissioni non di poco conto.

Lo scrittore afferma che la risoluzione Onu del 1947, che stabilisce la creazione di due stati, uno ebraico e uno palestinese, “l’area assegnata a questi due popoli era più o meno la stessa”.
In realtà la parte della Palestina assegnata a Israele era pari al 55% del territorio, molto più della rappresentanza reale della popolazione ebraico a quell’epoca, pari al 33% per cento del totale: quindi ci fu un trattamento di favore.
Nella guerra del 67, non è esatto dire che Israele “fu attaccato” da Egitto e Giordania; fu Israele ad attaccare per primo, temendo un attacco imminente; fu questo attacco preventivo che determinò poi la sua vittoria.
E sempre a proposito di quella guerra, è ancora del 67 la risoluzione 242 delle Nazioni Unite, che lo scrittore non ricorda, ma che ordina a Israele di ritirarsi dai territori occupati: cosa che Israele non ha mai fatto, come mai ha ottemperato alle altre risoluzioni dell’Onu.
Ora è ben strano, e anche su questo Yehoshua tace, che uno stato che è nato per una risoluzione delle Nazioni Unite, la 181, poi si è fatto sempre beffe di tutte le altre risoluzioni dell’Onu!
Gaza, dice lo scrittore, ora è governata da Hamas: ma Gaza è sotto embargo, è chiusa per mare, per terra e per cielo dagli israeliani: Hamas governa, ma in una prigione le cui chiavi sono in mano a Israele. E in questa prigione, che tiene reclusa una popolazione di un milione e mezzo di persone, non può entrare nessuno, come le vicende delle Freedom Flotilla dimostrano.
Infine il negoziato: sono più di vent’anni che il processo di pace dura e non cammina: mentre l’occupazione, l’esproprio di terre e acque palestinesi , la demolizione delle case, la costruzione del muro, il sistema di apartheid, continuano e camminano: con il silenzio complice di Usa, paesi europei, e molti paesi arabi.

La Stampa 11 luglio 2011

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