Articolo pubblicato originariamente su Haaretz e tradotto in italiano da Beniamino Rocchetto
Di Gideon Levy e Alex Levac
Imad, 15 anni, è stato ucciso da soldati israeliani mentre si trovava sul tetto della sua casa. A seguito di quella tragedia, i suoi fratelli sono stati spinti in gravi difficoltà economiche. L’insopportabile disperazione di una famiglia del campo profughi di Balata.
Imad è nato lunedì scorso dopo un taglio cesareo all’ospedale Rafadiya nella città di Nablus, in Cisgiordania. Il neonato prende il nome da suo zio, fratello di suo padre, che non conoscerà mai. Il primo Imad Hashash* era un quindicenne che la notte del 24 agosto è salito sul tetto della sua casa nel campo profughi di Balata, per vedere cosa stava succedendo nelle strade sottostanti durante un’incursione delle Forze di Difesa Israeliane. Imad si è sportò per guardare, ed è stato immediatamente colpito, racconta ora uno dei suoi fratelli. Un soldato posizionato nell’angolo di un vicolo ha puntato il fucile e ha sparato a Imad da lontano. Il proiettile ha colpito il volto dell’adolescente facendogli esplodere il cranio. È morto all’istante.
Per questa famiglia di profughi di Balata, tuttavia, il calvario era solo all’inizio, come è avvenuto per migliaia di altre famiglie palestinesi in circostanze simili. Il trauma dell’uccisione di un figlio e di un fratello fu solo il primo che Israele inferse agli Hashash. Seguì l’immediata e crudele automatica cancellazione dei permessi di lavoro in possesso dei due fratelli di Imad, che da diversi anni lavoravano in una falegnameria israeliana. Il risultato è il tracollo economico della famiglia. Un fratello, Abdallah, rischia di perdere la nuova casa che ha comprato, che non può più pagare; il secondo fratello, Omar, non è in grado di pagare il taglio cesareo che sua moglie ha subito questa settimana durante il parto del figlio Imad. E tutto ciò è aggravato dalla difficile situazione dei profughi in cui versa Balata, che evoca la Striscia di Gaza ed è forse il più cupo e fatiscente di tutti i campi della Cisgiordania.
Per arrivare a casa sua, il padre di famiglia, Khaled Hashash, 50 anni, deve farsi strada tra i numerosi sacchi di immondizia sparsi lungo la via. La sua è una tipica abitazione da profughi, affollata e congestionata, il cui interno riflette un disperato tentativo della famiglia di creare un aspetto più gradevole mediante economiche piastrelle colorate su pareti e pavimenti, su cui una luce fluorescente proietta un bagliore pallido. La costruzione della casa non è mai stata completata del tutto, è un insieme sgraziato di superfici discontinue, e il tetto del terzo piano sul quale è stato ucciso Imad è finito solo per metà.
“Ogni casa qui ha una storia triste”, dice Abdulkarim Sadi, ricercatore sul campo per l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, che ci accompagna questa settimana.
All’interno dell’umile casa, la nonna, Aaliyah, 85 anni, che indossa un abito tradizionale ricamato, si appoggia al suo deambulatore. È nata nel villaggio palestinese di Sheikh Munis e quando le dico che vivo a Ramat Aviv, un quartiere di Tel Aviv costruito sulle rovine del suo villaggio, suo nipote Omar dice: “È la sua terra”. Tre mesi dopo che suo nipote è stato ucciso, è in costante lutto e talvolta si scioglie in lacrime. Sua nuora, Rubiya, la madre di Imad, è morta di cancro allo stomaco all’età di 37 anni, quando Imad aveva 2 anni e mezzo. La fotografia della madre è in vista nel soggiorno, ora accanto a quella del figlio/nipote morto.
La coppia ebbe sette figli e quattro figlie, di cui Imad era il più giovane. Khaled lavora dal 1997 per il dipartimento dei servizi igienico-sanitari della municipalità di Nablus come addetto alle pulizie per un misero stipendio. I principali sostentatori della famiglia erano i due maggiori, Omar e Abdallah, che lavoravano in Israele. Abdallah ha 36 anni, è sposato, padre di tre figli e un altro in arrivo; Omar ha 23 anni e da lunedì scorso è padre di due figli. La sua carta d’identità è trattenuta dall’ospedale in cui è nato suo figlio fino a quando non potrà pagare l’operazione della moglie.
I fratelli sono disoccupati da quando Imad è stato ucciso e le autorità israeliane hanno automaticamente revocato i loro permessi per lavorare nella falegnameria, di proprietà di un israeliano di nome Ilan Mordechai e situata nella zona industriale di Kafr Qasem, vicino a Petah Tikva. Abdallah lavorava lì da quattro anni, Omar da due. Ognuno di loro guadagnava circa 300 shekel (85 euro) al giorno e dormivano in un container vicino alla falegnameria, tornando a casa solo nei fine settimana. Entrambi avevano permessi di lavoro che presentavano ogni settimana al posto di blocco di Eyal. Dicono che i rapporti di lavoro erano buoni nel negozio di Mordechai.
Anche l’altro loro fratello, Mohammed, 21 anni, che era con Imad la notte del 24 agosto, è disoccupato. Ha lavorato per un periodo come netturbino, guadagnando 50 shekel (14 euro) al giorno. Lo considerò uno stipendio ingiusto e dopo la morte del fratello smise di lavorare. I due erano entrambi svegli a tarda notte, a seguito dell’incursione dell’IDF a Balata, un evento frequente.
Imad, un ragazzo di seconda media, e Mohammed condividevano una stanza. Verso le 3:30 del mattino, Mohammed chiese a Imad di andare al negozio di alimentari, aperto 24 ore su 24, 7 giorni su 7, di fronte alla loro casa per comprargli delle sigarette. Nel frattempo, si diffondevano i messaggi vocali postati nei gruppi di social media di Balata: L’esercito è nel campo. Le truppe erano entrate per arrestare un residente con l’accusa di sospetto terrorismo. Quando Imad è tornato dal negozio di alimentari si è precipitato sul tetto per vedere cosa stava succedendo e per filmare gli eventi con il telefono e pubblicare il video. Mohammed lo seguì. A quel punto i soldati erano già in procinto di ritirarsi dal campo, avendo arrestato l’individuo che stavano cercando. Mohammed ci racconta che nel loro vicolo non si lanciavano sassi contro i soldati, ma solo in altre strade. A distanza, all’angolo del loro vicolo, rimase un ultimo soldato, apparentemente per coprire l’uscita delle forze dal campo.
Imad si sporse oltre il parapetto del tetto per guardare e subito il soldato gli sparò un proiettile, che lo colpì al volto; il suo cervello schizzò vicino al contenitore dell’acqua. Mohammed ha visto tutto. Una vicina ha detto di aver sentito una soldatessa arrivata dire al tiratore: “L’hai ucciso”. Khaled, il padre, ha sentito il rumore dello sparo mentre era a letto. Ben presto comprese quel che era successo.
L’Unità del Portavoce dell’IDF questa settimana ha risposto alla domanda di Haaretz: “In conformità con la dichiarazione rilasciata il giorno dell’incidente: Al termine di un’operazione dei soldati dell’IDF il 24 agosto per arrestare un ricercato nel campo profughi di Balata, che è sotto il controllo della Brigata Territoriale di Shomron (Samaria), scoppiò un violento disordine che includeva il lancio di pietre e altri oggetti contro le truppe dell’IDF dai tetti degli edifici adiacenti alla forza. Durante i disordini, alcuni soldati hanno individuato un sospetto sul tetto di un edificio che teneva in mano un oggetto di grandi dimensioni e ha cercato di lanciarlo contro un soldato che si trovava sotto l’edificio. Uno dei soldati ha risposto sparando ed è stata rilevata l’esplosione di un colpo”.
Mohammed portò rapidamente il corpo di suo fratello al piano di sotto. Un soldato che nel frattempo era arrivato ha lanciato una granata lacrimogena contro la casa, e il gas ha invaso le stanze. La famiglia ha portato Imad al Muqata (edificio governativo) a Nablus, da dove un’ambulanza lo ha portato a Rafadiya, ma tutto ciò che i medici potevano fare a quel punto era dichiarare la morte del giovane. I parenti hanno chiamato Omar e Abdallah a Kafr Qasem, li hanno svegliati e hanno raccontato loro cosa era successo. Partirono immediatamente per l’ospedale di Nablus, per non poter mai più tornare al loro posto di lavoro.
Il funerale del fratello si tenne quel pomeriggio nel campo profughi.
Il giorno stesso, il servizio di sicurezza dello Shin Bet informò Ilan Mordechai, il proprietario della falegnameria, che i permessi di lavoro di Abdallah e Omar erano stati revocati. Nessuno si è preoccupato di avvisarli direttamente, comunque. Il proprietario ha informato il suocero di Omar, che lavora anche lui lì, che ha riferito il messaggio; il permesso del suocero non è stato annullato. Come prassi, ogni volta che un palestinese viene ucciso dalle forze israeliane, la famiglia viene ulteriormente punita con la cancellazione immediata del permesso di lavoro, a tempo indeterminato e senza spiegazioni.
Un portavoce del Coordinatore israeliano delle Attività Governative nei Territori (COGAT) ha riferito allo Shin Bet la richiesta di Haaretz per un commento, che non ha trasmesso in tempo per la pubblicazione.
Nel frattempo, da oltre tre mesi, i due fratelli maggiori Hashash sono disoccupati.
“Dobbiamo provvedere alle nostre famiglie, abbiamo un dovere nei loro confronti”, dice Omar, un giovane uomo robusto con un timido sorriso.
Pochi mesi fa Abdallah ha acquistato un nuovo appartamento, nel tentativo di creare una vita per sé e la sua famiglia al di là del ciclo di povertà di Balata, in un sobborgo di Nablus vicino al campo profughi di Askar. L’appartamento è costato 255.000 shekel (70.000 euro), di cui ha versato 80.000 shekel (22.000 euro) e ha acceso un mutuo sul resto, da rimborsare tramite pagamenti mensili di 4.000 shekel (1.100 euro). Se Abdallah non riesce a pagare per tre mesi consecutivi, perderà il diritto all’appartamento così come i denaro che ha già versato. Nel frattempo, bussa alle porte di parenti, vicini e amici cercando di ottenere prestiti o aiuti per la sua famiglia disperata. Altrimenti perderà l’appartamento e tutto il resto.
Questa settimana la moglie di Omar, Razan, ha dato alla luce il loro figlio, Imad. La famiglia non ha un’assicurazione medica e Imad non riavrà la sua carta d’identità dall’ospedale finché non pagherà 2.000 shekel (550 euro) che non ha per il cesareo. Anche lui sta cercando di racimolare soldi. Senza carta d’identità e senza permesso di lavoro, la vita di un palestinese nei territori non è una vita.
*Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.
**Alex Levac è diventato fotografo esclusivo per il quotidiano Hadashot nel 1983 e dal 1993 è fotografo esclusivo per il quotidiano israeliano Haaretz. Nel 1984, una fotografia scattata durante il dirottamento di un autobus di Tel Aviv smentì il resoconto ufficiale degli eventi e portò a uno scandalo di lunga data noto come affare Kav 300. Levac ha partecipato a numerose mostre, tra cui indiani amazzonici, tenutesi presso l’Università della California, Berkeley; la Biennale israeliana di fotografia Ein Harod; e il Museo di Israele a Gerusalemme. Ha pubblicato cinque libri.
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