Prove tecniche di diplomazia islamista

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admin | October 4th, 2012 – 4:26 pm

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E così, alla fine, la tanto attesa fiammata sulla frontiera turco-siriana c’è stata. Colpi di mortaio da parte siriana, cinque turchi uccisi, in massima parte bambini (quattro). Quasi immediata la reazione turca, con un raid al territorio siriano che nella notte di ieri ha rotto una impasse che durava da settimane. Se non da mesi.

Ora tocca alla NATO decidere se gli scontri di frontiera tra Siria e Turchia si inquadrano nel famoso articolo cinque del Trattato dell’Atlantico del Nord, e se dunque uno degli stati membri (Ankara) debba essere difeso da tutti gli altri. L’Europa, insomma, deciderà di intervenire contro Bashar al Assad? Lo si vedrà. L’aspetto più interessante della questione – paradossalmente – non è però la ‘fiammata’ militare, quanto i tanti fatti politici che l’hanno preceduta. Eventi, segnali, riposizionamenti….

Tutto è ruotato attorno al congresso dell’AKP di fine settembre, e all’exploit di Recep Tayyep Erdogan. Un congresso di partito divenuto, visti gli ospiti intervenuti, non solo un ritratto di quello che succede nei nuovi equilibri in campo islamista dopo il Secondo Risveglio Arabo. Ma anche un vero e proprio evento di politica regionale. Anzitutto, perché la frattura Egitto-Turchia degli ultimi anni di Hosni Mubarak è stata definitivamente sanata. La presenza di Mohammed Morsy al congresso dell’AKP come l’ospite eccellente, e gli stessi contenuti del suo discorso, hanno rappresentato il clou di un evento curato – a quanto sembra – con una precisa regia politica.

E allora, cerchiamo di comprendere meglio i dettagli. Il neo-presidente egiziano Morsy si presenta al congresso dell’AKP dopo una sostanziale investitura internazionale, e cioè dopo il discorso di fronte all’Assemblea generale dell’ONU  a New York, sempre a settembre. Il duo Erdogan-Morsy fa inoltre comprendere che su questioni di impatto regionale fortissimo – come la guerra civile siriana – Egitto e Turchia non vogliono lasciare il palcoscenico agli occidentali. Non si deve ripetere, insomma, un intervento sul tipo di quello in Libia, in cui la presenza occidentale era propedeutica a una futura influenza europea e americana sulla questione energetica. Il singolare quartetto che si occupa del caso siriano (assieme a Turchia ed Egitto, Iran e Arabia Saudita) la dice infatti lunga sui nuovi equilibri regionali, e anche sul cambio di passo nelle dinamiche tra potenze mediorientali e occidentali.

Morsy, dunque, ha confermato che l’Egitto non può accettare quello che il regime siriano sta facendo in questi anni. E, scendendo più a sud, ha detto che il confine di Rafah, tra Gaza ed Egitto, è aperto. Un’affermazione che cozza con quanto succede tra Gaza ed Egitto, e fra Hamas e le autorità del Cairo, sui tunnel in cui passa il contrabbando, unica via commerciale aperta. L’Egitto ha chiuso alcune decine di tunnel, ha chiuso il valico di Rafah, ma non ha ancora messo mano alla zona di libero scambio, come richiesto dalle autorità di Hamas di Gaza, e anche dal numero due del movimento islamista, Moussa Abu Marzouq, che in questi ultimi giorni ha parlato molto.

La parte del discorso di Morsy relativa a Gaza è piuttosto da mettere in relazione alla presenza di un altro ospite al congresso dell’AKP. Khaled Meshaal, ancora numero uno di Hamas, è stato accolto con calore, dai delegati al congresso, e ha avuto a disposizione un podio importante, all’indomani delle indiscrezioni che parlano della sua volontà di non ricandidarsi a capo del bureau politico del movimento islamista. Un podio usato da Meshaal almeno per due motivi: affermare Hamas come parte del più vasto movimento islamista della regione, e – nel confronto tra Turchia e Siria – scegliere definitivamente la Turchia. Il sistema islamista alla Erdogan è stato indicato da Meshaal, nella sostanza, come un modello per Hamas.

A Damasco, la presenza di Meshaal sul podio del congresso dell’AKP non poteva che suscitare una reazione violenta. Come violento è stato l’attacco della tv di stato siriana contro il numero uno dell’ufficio politico di Hamas, per oltre un decennio ospite gradito del regime degli Assad. L’emittente di Damasco ha accusato Meshaal di ingratitudine, visto che la Siria lo aveva accolto nel 1999 quando – ha detto – “nessuno voleva neanche stringergli la mano”. E l’attacco è andato anche oltre, colpendo nel vulnus dei rapporti tra Egitto e Gaza, proprio sulla questione dei tunnel. Meshaal ha girato lo sguardo dall’altra parte, ha detto la tv di stato siriana.

Lo strappo tra Siria e Hamas, dunque, si è consumato. Di per sé, questa non sarebbe una notizia, visto che la presenza di Moussa Abu Marzouq al Cairo è un più che implicito riconoscimento del ruolo dell’Egitto (con presidenza islamista) negli affari palestinesi. È invece uno strappo importante, se il punto di osservazione non è il Cairo, bensì Ankara. La Turchia di Erdogan non può attaccare la Siria (e criticare l’Iran) senza doversi giustificare per il fatto di essere, oggettivamente, sullo stesso fronte di Israele, dove i tamburi di guerra  percossi da Netanyahu in direzione di Teheran sono sempre più forti. Avendo ottenuto, invece, l’appoggio incondizionato di Hamas, la Turchia di Erdogan si difende da accuse di questo tipo, e – allo stesso tempo – aiuta anche l’Egitto nel rapporto con l’islam politico palestinese.

Prove tecniche di diplomazia regionale, insomma. E questo è solo l’inizio.

Su Hamas, invece, si concentrano da due giorni attacchi molto duri, che coinvolgono il regime a Gaza. Sul Daily Star Lebanon compare un’inchiesta sulla corruzione a Gaza: un’accusa che ho sentito anch’io, all’inizio dell’estate. Secondo la vox populi, il regime è un sistema di potere che si avvicina sempre di più a quello di Fatah. La differenza, dice sempre la strada a Gaza, è che quelli di Fatah si arricchivano in quanto individui, e quelli di Hamas rafforzano il proprio partito e il proprio potere. Altra accusa, ricorrente, è quella di caricare di tasse la popolazione. Il secondo attacco è quello di Human Rights Watch, che in un rapporto di oltre quaranta pagine dal titolo emblematico (Abusive System)ha accusato il regime di Hamas a Gaza di violazioni pesanti come tortura e arresti arbitrari. Il regime, però, incassa un punto, con l’apertura di una rappresentanza del Qatar dentro Gaza.

Per la playlist, un evergreen. Will we still love me tomorrow, ma cantata da Norah Jones.

La foto è del sultano ottomano Mehmed II, in mostra al  museo islamico di Doha

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