“Sono arrivata a Ramallah con poche e vaghe immagini interiorizzate distratte: e questa guerra, essenzialmente, come una tragedia greca in cui tutti hanno insieme torto e ragione, il groviglio tra incompatibili – e l’Undici Settembre, poi adesso, e lo scontro di civiltà. Fino al giorno, però, in cui ho incontrato Mustafa Barghouthi. Medico e deputato: ma soprattutto, musulmano e laico: uno cioè, che secondo la mia laurea in Relazioni Internazionali non esisteva – perché l’Islam, no?, non consente quella separazione tra stato e religione che è la base della modernità”. Così Francesca Borri, classe 1980, ricorda la sua prima volta in Palestina. Avrebbe dovuto fermarsi tre mesi, e scrivere la tesi di un master. Ha finito per fermarsi tre anni e scrivere un libro.
Pubblicato in questi giorni da ManifestoLibri, Qualcuno con cui parlare. Israeliani e palestinesi” non è però un libro di interviste”, spiega l’autrice, “ma un libro piuttosto in forma di interviste, o meglio ancora: interazioni. Perché domande e risposte, narrato e narratore continuamente, inavvertitamente si invertono. Quello che i protagonisti di questo libro hanno in comune”, continua, “è semplicemente questo: la capacità e naturalezza di smentire le narrazioni dominanti. Perché il problema non è solo quello che ti insegnano, nelle nostre università – ho frequentato sociologia della musica tecno, nella mia vita, non mi sono mai imbattuta in una geopolitica del Medio Oriente: il problema è anche, soprattutto, quello che ti insegnano: e questa nostra cultura, tutta costruita così, come se il mondo fossimo noi, per dirla con Lorenzo Milani. Non è dunque un ritratto di Israele e Palestina, questo libro”, precisa: “non ha la minima pretesa di esaustività. Non è un libro a sostegno di una tesi. Solo un libro a sostegno e tutela del dubbio”.
Il titolo del libro è il titolo di una delle interviste, quella con Nurit Peled e Bassam Aramin. Israeliana lei, una figlia uccisa in un attentato sucida, palestinese lui, una figlia uccisa a un checkpoint: “due vecchi amici che chiacchierano di istinto in arabo e ebraico insieme: due vite e due voci che finiscono per diventare una sola, indistinte e condivise come la guerra e la terra che le unisce”. Ma Qualcuno con cui parlare è anche, soprattutto, una frase tipica del dibattito politico, sia tra gli israeliani che tra i palestinesi: “l’unica cosa che a volte sembrano condividere: l’alibi dietro cui trincerarsi: l’idea che non esista nessuno con cui parlare, dall’altra parte del Muro”.
Diciotto interviste, allora, “donne e uomini dalle storie e ferite le più diverse”, conclude l’autrice: “ma che continuano a sentirsi prima di tutto persone, rivendicando identità più larghe, e varie e complesse di quelle consentite dalla classificazione e costrizione in israeliani e palestinesi. Nella convinzione che per sconfiggere il fondamentalismo altrui, sia indispensabile cominciare dalla decostruzione del proprio – perché beit, alla fine arabo e ebraico hanno la stessa parola per dire casa”.
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